Nessuno, in quel Consiglio europeo che si tenne a Maastricht il 9 dicembre 1991, avrebbe probabilmente immaginato che, vent’anni dopo, l’euro – il «figlio» prediletto del trattato che concepì la moneta unica – avrebbe causato notti insonni ai rappresentanti di tutti gli Stati europei. In queste ore a Bruxelles l’Europa sta giocando il tutto per tutto per scongiurare il collasso dell’eurosistema, e con esso il sogno dell’Europa politica. Forse per la prima volta il rischio serio di una «esplosione dell’euro» – come ha detto senza mezzi termini il presidente francese Nicolas Sarkozy alla vigilia del vertice – non è mai stato così reale. In tanti attendono di sapere cosa decideranno i rappresentanti europei. I mercati; le banche; il presidente americano Obama, che si dichiara «preoccupato», la Germania, sempre più scettica sulla possibilità di trovare accordi salva-stati estesi ai 27 paesi dell’Ue, l’Italia, dove il capo del governo Monti, dopo aver varato una manovra centrata sul prelievo fiscale, si sente dire da Fitch che il nostro paese «deve portare a termine sostanziali riforme strutturali per rilanciare la crescita».
Ironia della storia, il progetto di una unione politica venne lanciato proprio vent’anni or sono. Per la verità il parto dell’Europa monetaria, che avrebbe dovuto fare da volano all’Unione politica, non fu così facile. Dopo quel 9 dicembre si accavallarono proposte, bocciature referendarie, conferenze intergovernative. Segno che qualcosa, «dentro» il meccanismo, non girava a dovere. Ma si andò avanti. Oggi l’«Europa di Maastricht» potrebbe davvero essere giunta al capolinea. Gianni De Michelis, allora ministro degli Esteri nel VII governo Andreotti fu tra i protagonisti di quella trattativa.



De Michelis, si apre oggi a Bruxelles un summit decisivo per la moneta unica e per il futuro dell’Unione. Dove stiamo andando?

Raccogliamo i frutti degli errori che sono stati commessi negli ultimi 10-15 anni. Ai negoziati di Maastricht dovemmo cambiare in velocità l’impostazione che vigeva alla vigilia, per tener dietro all’assetto di un’Europa che usciva stravolto dalla riunificazione tedesca. Era finita la guerra fredda e si apriva una fase del tutto nuova nelle relazioni mondiali ed anche europee.



Che cosa decideste di fare?

Cercammo di affrontare il problema raddoppiando le conferenze intergovernative. Ce n’era già una prevista negli anni precedenti sull’unione monetaria, ne aggiungemmo una seconda, che si sviluppò tra il dicembre del ’90 e il dicembre del ’91. Fu chiaro che il «salto di qualità» che si doveva compiere non poteva riguardare soltanto l’ordine monetario, ma anche l’avvio di un processo di integrazione politica.

Che non c’è stato, però.

Siccome fummo costretti a fare tutto molto in fretta, l’integrazione politica fu in qualche modo proiettata nel tempo. Firmammo Maastricht includendovi l’idea di un processo di integrazione politica che completasse la spinta dell’integrazione monetaria. Ma questo doppio processo non procedette con la dovuta velocità e nel migliore dei modi: Amsterdam fu un fallimento, Nizza fu un fallimento ancora maggiore, il trattato costituzionale di Amato e Giscard d’Estaing un fallimento totale. Si arrivò a parlare di integrazione politica solo con il trattato di Lisbona, entrato in vigore nel novembre 2009 con la bellezza di quasi vent’anni di ritardo.



Nel frattempo sono cambiate un po’ di cose.

Nel frattempo è scoppiata la crisi globale, che ha coinvolto anche le istituzioni europee. Ma soprattutto, le leadership che nel corso di questi vent’anni sono venute dopo di noi hanno perso di vista una regola fondamentale che quando discutemmo e firmammo Maastricht era per noi evidente.

Quale?

L’assoluta necessità di mandare avanti di pari passo il processo di deepening e il processo di widening: la modifica della governance europea, in direzione dell’integrazione politica, doveva essere contestualmente correlata col processo di allargamento. Dimenticare questa regola è costato il fallimento del processo di edificazione europea negli anni successivi. Ne vediamo i risultati.

Secondo lei la Germania che cosa sta facendo?

Sta commettendo l’errore opposto: concentrare tutto sul deepening, sul consolidamento mediante il rigore. È l’antitesi dei nostri interessi. Anche se riuscissimo a strappare qualche punto di vantaggio o di minor rigore sulle condizioni che i tedeschi ci hanno imposto con la famosa lettera della Bce, modificheremmo di poco la situazione italiana.

Mentre il destino italiano, lei dice, è legato allo sviluppo dell’allargamento.

Esatto. L’assenza di una chiara scelta sulle prospettive di ulteriore allargamento del processo di integrazione europea potrebbe decidere in senso negativo le sorti dell’Italia. Se prevale una logica di rigido ossequio ai meccanismi di regolazione, rischiamo di essere messi fuori e di avere un’Europa che tenderà a restringersi. Una messa ai margini dei Paesi mediterranei dell’Europa – è quello che ho chiamato in questi anni il «rattrappimento baltico» – significherebbe per noi il disastro immediato, ma sarebbe un disastro anche per quella parte di Europa che pensa di cavarsela facendo in altro modo.

Dunque occorre una scelta chiara in direzione euromediterranea.

È l’unica che darebbe un contesto geopolitico alla nostra crescita, che manca. Tra l’altro, una scelta strategica in favore della prospettiva più ampia di allargamento dell’integrazione europea permetterebbe di cogliere tutte le potenzialità positive insite nella cosiddetta primavera araba.

Se dovesse tornare indietro agli anni in cui le scelte fondamentali di Maastricht vennero discusse, farebbe qualcosa di diverso?

Le scelte sono state tutte assolutamente giuste; il dramma è che si è sbagliato dopo, e si rischia di sbagliare ancor di più adesso. L’integrazione europea noi la concepimmo, e così dovrebbe essere anche oggi, come processo. L’unico trattato di Maastricht aveva due facce che dovevano rimanere strettamente collegate; così non è stato.

Oggi si parla di «Merkozy». Come vede l’egemonia di Francia e Germania?

In realtà è un’egemonia asimmetrica: la Germania detta le regole e Sarkozy, indebolito dal fatto di essere sotto elezioni, le subisce. A porre la questione del widening dovrebbe essere soprattutto la Francia: il fatto che Sarkozy non l’abbia ancora fatto e non riesca a cogliere il nesso tra le due facce della medaglia, dimostra che il «Merkozy» non esiste. È Merkel e basta.

Il primo «allargamento» con il quale dovette fare i conti il Consiglio europeo di Maastricht fu quello che era appena avvenuto nel cuore stesso dell’Europa, ossia la riunificazione tedesca. Mitterrand ne fu spaventato, è così?

Fu un’altra delle cose che discutemmo: visto che il widening era cominciato con l’unificazione tedesca, il punto era se questo avrebbe aiutato l’Europa o se viceversa avrebbe agevolato un’egemonia della Germania. Lo «scambio» fu unificazione tedesca contro rinuncia al marco. L’euro nasce sul superamento del marco e sono ancora convinto che sia stata una vittoria.

Ma non è stato proprio questo l’effetto paradossale, che facendo l’euro sul marco tutta l’Europa si è dovuta adeguare al carro tedesco?

Questo è stato un vantaggio, perché ha ridotto l’inflazione che avevamo in Italia uniformandola all’inflazione media europea e dunque a quella della Germania. La responsabilità tedesca è stata quella di frenare drasticamente il processo di integrazione congelando l’allargamento. Berlino, la riunificazione, l’ha avuta; oggi qualcuno dovrebbe ricordare alla Germania i suoi impegni.

(Federico Ferraù)

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