In un discorso pronunciato sabato scorso a Monaco di Baviera il premier britannico David Cameron ha criticato il “multiculturalismo di Stato” cui si è finora ispirata la politica del Regno Unito in tema di integrazione sociale sottolineando come di fatto abbia prodotto non integrazione bensì auto-segregazione delle comunità di origine straniera e un indebolimento nell’affermazione di diritti umani, come ad esempio la pari dignità tra uomo e donna, che invece devono valere sempre e comunque.
Va detto a completamento della notizia che di recente anche il cancelliere tedesco Angela Merkel si era espressa in termini analoghi con riguardo al caso della Germania affermando tra l’altro che la coesione sociale si costruisce sul confronto pacifico ma esplicito tra visioni del mondo diverse, e non sul loro annichilimento; e aggiungendo al riguardo che il problema in Germania non è “il troppo islam, bensì il troppo poco cristianesimo”. Se si aggiunge che anche in Francia è ormai da tempo in corso un analogo ripensamento di analoghe politiche di integrazione rivelatesi altrettanto fallimentari si può positivamente concludere che ci sono oggi le condizioni perché la politica nel settore possa sostanzialmente migliorare.
Ciò è di specifico interesse per il nostro Paese che, essendo stato l’ultimo fra i maggiori Stati europei a dover fare i conti con flussi consistenti di immigrazione di stranieri di altra cultura, per mancanza di esperienza e carenze di informazione rischia adesso di affrontare il problema in modo arretrato tenendo ancora per buoni criteri e formule obsoleti.
Veniamo comunque al caso del discorso di Cameron che ha il merito di essere molto esplicito e anche il vantaggio di avere trovato vasta eco. Come via al superamento di tale multiculturalismo il premier britannico ha indicato il principio di appartenenza a un territorio e quindi alla sua storia e alla sua cultura: “La gente deve poter dire”, ha sostenuto tra l’altro, “sono un musulmano, sono un indù, sono un cristiano ma sono anche un londinese”. La strada è giusta, ma poi resta da vedere quanta gente sia disposta a percorrerla; e prima ancora quanti tra i proverbiali “addetti ai lavori” dell’integrazione sociale, dagli insegnanti ai giornalisti, dai medici di base ai volontari delle organizzazioni di solidarietà.
La questione non è certo di poco peso: non è semplicemente politica, né tanto meno sociologica ma attiene alla sfera della filosofia nel senso originario del termine. Il “multiculturalismo di Stato” che ora finalmente si critica è infatti figlio del moderno relativismo con il suo tipico rifiuto dell’eventualità che si possa a giungere a un vero e a un giusto validi per tutti. Nella misura in cui ciò diventa mentalità comune ecco che a lungo andare viene meno qualsiasi interesse per l’altro da sé; e all’ombra di un’indifferenza spacciata per tolleranza, la società civile si riduce a un ammasso di ghetti tendenzialmente ostili l’uno all’altro.
Per uscire da questo vicolo cieco basta oggi, come sembra suggerire Cameron, il richiamo all’appartenenza a un territorio e alla sua identità socio-storica?
Temo che per una parte crescente dei miei contemporanei l’appartenenza a un territorio non abbia più la pregnanza che ad esempio ha per me. Me ne dispiace anche molto, ma le cose stanno così. Allora si deve andare più in là, a qualcosa che in effetti era ricompreso nell’appartenenza a terre come i nostri Paesi europei, ma che appunto oggi non scatta più automaticamente in tutti. Mi riferisco alle evidenze fondamentali che derivano dalla condizione umana. L’unico vero possibile motore del dialogo, e quindi anche della convivenza civile, non è affatto il “dubbio metodico” delle filosofie di matrice illuministica, di cui il moderno relativismo di massa è l’estrema degenerazione. E’ piuttosto la comune condizione umana. Il dialogo allora consiste nell’intrecciarsi delle risposte ai quesiti conseguenti che ciascuno dà in base alla propria visione del mondo.
E, avuto riguardo per l’ovvia «primogenitura» della tradizione del paese, la convivenza civile non può quindi che fondarsi su una piattaforma di valori comuni, sempre in divenire, frutto dell’aperto confronto tra tali varie risposte e non sul loro annichilimento; nella prospettiva di una fiduciosa e leale ricerca di quanto è vero e giusto per tutti. O si fa una politica di integrazione ispirata a criteri del genere o dalla catastrofe del “multiculturalismo” non si esce.
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