«Le proteste di piazza Tahrir hanno colto l’Occidente totalmente di sorpresa, e ora quindi non possiamo più continuare a ragionare con i vecchi schemi. Sarebbe un errore pensare che siccome gli egiziani sono arabi e musulmani, la democrazia non fa per loro. Ammesso che ci si arrivi, non sarà però una democrazia sul modello di Francia o Stati Uniti, ma qualcosa di completamente nuovo». A sottolinearlo è Vittorio Emanuele Parsi, esperto di politica internazionale, intervistato da ilsussidiario.net all’indomani delle dimissioni di Hosni Mubarak. Una novità dopo la quale «non possiamo più tornare alla vecchia interpretazione da manuale», un po’ come dopo gli eventi, di segno opposto, dell’11 settembre 2001. In attesa di capire che cosa comporteranno lo scioglimento del Parlamento e la sospensione della Costituzione, decretate ieri dal Consiglio supremo militare egiziano, abbiamo chiesto all’editorialista de La Stampa di spiegarci che cosa accadrà.



Parsi, che cosa succederà in Egitto dopo le dimissioni di Mubarak?

La partita vera, quella più dura, inizia adesso. Fin qui abbiamo scherzato, ora vincerà chi è più organizzato. E’ come un gioco d’azzardo.

Secondo alcuni i più organizzati sono i Fratelli musulmani…

I Fratelli musulmani, ma anche l’esercito, la società civile o chiunque altro. E’ probabile che emergano dei fenomeni che ci stupiranno. Di fronte alla sorpresa della protesta che ha portato alle dimissioni di Mubarak, sarebbe sbagliato se dicessimo: «Bene, ora torniamo alle categorie abituali». Se siamo stati spiazzati una volta, possiamo continuare a esserlo anche in futuro. Non possiamo ritornare a un’interpretazione da manuale.



L’Egitto è pronto per la democrazia?
 

Una volta si diceva che i Paesi del Sud dell’Europa, come l’Italia, non erano adatti per la democrazia. E’ ovvio che in molti Paesi del Medio Oriente esistono condizioni che rendono molto difficile un processo di democratizzazione. Però non commettiamo l’errore di pensare che siccome sono musulmani, o arabi, allora non ci riusciranno mai. Di sicuro non una forma di governo in stile Democrazia cristiana, o una repubblica alla francese. Però il mondo cambia. La democrazia che si è affermata negli Stati Uniti non era quella che aveva in mente Jean-Jacques Rousseau. Ma nelle Tavole della legge non sta scritto che la democrazia francese è l’unica possibile. Quando ci sono nuovi avvenimenti, cambiano anche i concetti.



Nessuno però oggi può dire che cosa riservi il futuro in Medio Oriente…
 
Se la sfida del futuro è la democratizzazione del mondo islamico, sarebbe puerile pensare che questo avvenga su standard occidentali. Dobbiamo invece renderci conto che questo accadrà modificando i nostri modelli. Se va bene, con una variazione sul tema della democrazia, e se va male sotto qualcosa del tutto diverso.

Le elezioni libere in Iraq e Palestina sono state però accompagnate da persecuzioni ai danni dei cristiani…
 
L’Egitto non è paragonabile né all’Iraq né alla Palestina. I cristiani irakeni e palestinesi sono sempre stati una minoranza numericamente insignificante, che in passato è stata protetta da regimi autoritari. Al contrario, l’Egitto oggi è il secondo Paese islamico per percentuale di cristiani sulla popolazione totale. Il primo Paese è il Libano, dove i cristiani sono una minoranza numerosa che in passato è stata anche maggioranza. Inoltre, va sottolineato che l’unico Stato del Medio Oriente dove i cristiani negli ultimi anni sono aumentati è Israele, Palestina inclusa. Quindi non vedrei questa preoccupazione nei confronti delle elezioni libere. In un contesto di democrazia, per i cristiani egiziani ci saranno delle chance in più. Non credo proprio che l’Egitto di oggi possa intraprendere la via seguita dall’Impero Ottomano, dove i cristiani erano cittadini di serie B.

I Fratelli musulmani si sono detti favorevoli a negoziati guidati dagli Usa. Secondo lei sono sinceri?
 

Sì, perché evidentemente il loro partito avrebbe qualcosa da guadagnarci. Una mediazione politica condotta dagli Stati Uniti garantirebbe infatti una legittimazione dei Fratelli musulmani, in Egitto e altrove. Sì tratta di un forte incentivo, superiore a quello nei confronti degli intellettuali egiziani che dialogano già con Europa e Usa. La vera questione più che altro è se anche l’Occidente avrebbe qualcosa da guadagnare da un dialogo con i Fratelli musulmani. Io, per non saper né leggere né scrivere, proverei a percorrere questa strada, perché i Fratelli musulmani e più in generale l’Islam politico sono una realtà sempre più importante nel mondo. Per cui voler fare i damerini e dire «No, io con quelli non parlo» sarebbe controproducente. Occorre invece prendere atto di quello che sta accadendo nella sponda Sud del Mediterraneo e cercare di capire come fare a traghettare la situazione portandola su una rotta più in sintonia con noi. E l’unico modo è provare a dialogare con tutti i soggetti coinvolti, inclusi i Fratelli musulmani.

Il suo editoriale di sabato si intitolava «La vittoria di Obama». Ma lei è proprio sicuro che per gli Usa la caduta di Mubarak sia una vittoria?
 
Gli Usa stanno tentando un accompagnamento dolce di una perdita della loro influenza in Medio Oriente. Il potere Usa è in crisi in Egitto e in Libano, per non parlare dell’Iraq, dove quando andranno via gli americani stapperanno lo champagne. Gli Stati Uniti hanno perso quel ruolo di mediatore all’interno del mondo arabo che avevano ancora due anni fa.

Per cui quella di Obama è una vittoria di Pirro…

No, diciamo che è il massimo che si poteva fare in queste condizioni. Ma le ricadute sul lungo periodo saranno legate a fattori che in buona parte non dipendono da Obama. L’America è in declino, e se Obama non è in grado di interromperlo non è perché non abbia delle qualità. Semplicemente, si tratta di una situazione strutturale, che non può essere cambiata nemmeno dal presidente Usa.

E se chi ne trarrà beneficio alla fine fosse l’Iran di Ahmadinejad?
 

Dubito che l’Iran possa avere una grande influenza sull’Egitto, quest’ultimo è una sorta di architrave del mondo arabo. Ahmadinejad può agitarsi quanto vuole, ma non riuscirà mai a diventare la guida del mondo arabo. Soprattutto perché gli iraniani non sono arabi, come non lo sono i turchi o gli israeliani. Iran, Turchia e Israele sono tre Paesi molto potenti. Ma l’Egitto, pur attraversando una crisi politica, ha nel suo mazzo una carta in più, quella di essere un Paese arabo, e grazie a questo ha sempre esercitato una leadership in tutto il Medio Oriente.

Quello che accade al Cairo può destabilizzare i rapporti con Israele?
 
Gli israeliani hanno tenuto la porta aperta a Mubarak fino alla fine e non si sono schierati né troppo a favore né troppo contro di lui. E’ chiaro che avrebbero preferito il mantenimento dello status quo. Ma quando questo è impossibile, è inutile stare lì a piangere dicendo «Come era bello prima». Si guarda alla situazione nuova e si cerca di capire come far sì che, se non è apertamente a tuo vantaggio, non sia neanche del tutto a tuo svantaggio.

Ora l’onda egiziana si propagherà nei Paesi arabi moderati?

Anche l’Iran, che non è moderato, la sua onda l’ha già avuta e bisogna vedere se quanto sta accadendo nel mondo arabo non porterà a una seconda ondata… Che si propaghi poi nel resto del Medio Oriente è molto probabile. Negli anni ’50 abbiamo avuto i colpi di Stato militari, negli anni ’70 le repubbliche islamiche, nel decennio attuale potremmo avere le rivoluzioni dal basso. Il mondo arabo ha confini abbastanza smussati per poter immaginare che le ondate si propaghino in maniera più impattante e più forte.

Perché i tunisini, dopo avere ottenuto la democrazia, fuggono in Sicilia?

Perché la democrazia non ha mai riempito la pancia a nessuno. In Tunisia inoltre non c’è la democrazia, ma non un regime autoritario. Per cui magari non puoi ancora determinare il tuo futuro con il voto, ma intanto puoi andare al porto, prendere una barca e sparire. E nel dubbio, tra stare in Tunisia e andare a vivere in Unione europea, qualunque persona normale sceglierebbe la seconda.
 
(Pietro Vernizzi)
 

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