Le sollevazioni popolari che dalla Tunisia si sono propagate con un sorprendente quanto imprevedibile effetto a catena in Egitto, Algeria, Yemen, Libia e che ieri hanno agganciato come ultimo anello l’Iran, sono sicuramente la prova di quanto nel mondo arabo la modernizzazione degli Stati, seppur mai accompagnata da processi di democratizzazione, ha indotto la formazione di una cittadinanza che – come avrebbe detto Max Weber – si aspetta dai governi una “prestazione positiva” e ha dimostrato di essere in grado di rompere il patto con essi quando questa viene a mancare.



È importante comprendere il carattere moderno e secolare delle manifestazioni cui stiamo assistendo: i cittadini chiedono lavoro, dignità, riforme di fronte a governi autoritari, corrotti e impregnati di clientelismo. Non dimentichiamo che la miccia che ha fatto scoppiare la rivolta tunisina è stata il caso di un venditore ambulante di verdura che, dopo essersi visto sottrarre dalla polizia il suo carretto abusivo, si è dato fuoco non sapendo più come sfamare i suoi figli. L’Islam, in altri termini, non c’entra nulla nelle piazze arabe in rivolta che stanno dominando le tv mondiali. In quelle piazze c’è piuttosto il disagio di una popolazione giovane e senza speranza (nell’intero mondo arabo circa il 50 percento della popolazione ha meno di 20 anni e le prospettive lavorative sono bassissime praticamente in tutti i paesi). Anche le rivolte in Iran trovano fondamento in un fortissimo disagio sociale; il regime di Teheran peraltro arranca, vessato delle sanzioni internazionali che hanno imposto anche diversi tagli ai sussidi sociali.



C’è però una differenza sostanziale da fare tra gli Stati arabi e quello iraniano. Per quanto riguarda i primi, infatti, il rovesciamento dei governi potrebbe ironicamente portare l’islamismo radicale, per circostanze non legate da un filo di consequenzialità con gli eventi in corso, ad essere il principale beneficiario di queste crisi. Nel caso della teocrazia di Teheran, invece, l’effetto potrebbe essere esattamente opposto. Il popolo iraniano in sostanza contesta l’autorità repressiva delle istituzioni islamiche e dunque, se si creassero le condizioni di una transizione iraniana, il futuro regime avrebbe probabilmente un carattere più laico. E questo anche perché, a differenza delle società arabe in cui il legame civico è per lo più secondario rispetto a quello etnico, tribale o confessionale, paradossalmente in Iran, regime islamico per eccellenza, la società è molto più matura e possiede un’attitudine alla cultura civica molto più sviluppata.
 
Ma tra l’Iran e i regimi arabi c’è un’altra differenza di fondo, questa volta molto più strutturale, che ci dice già molto sulla diversità dei potenziali esiti di queste rivolte. Innanzitutto, mentre in Tunisia e in Egitto il vecchio ordine è già stato scardinato e la transizione, per quanto incerta, è già stata avviata, in Iran le strutture interne dello Stato potrebbero rendere la gatta del popolo impossibile da pelare. Nei regimi arabi, non dimentichiamolo, sono stati gli eserciti a sostenere le piazze in rivolta, voltando le spalle ai governi ormai in caduta libera. Nel caso iraniano, invece, non esiste strutturalmente un’istituzione in grado di volgere gli strumenti stessi del regime contro la sua testa.
 



I pasdaran iraniani sono molto differenti dagli eserciti arabi. Questi ultimi sono stati i campioni delle lotte irredentiste e della formazione statale e sono già al potere da decenni. L’appoggio che i militari hanno offerto alle popolazioni si spiega proprio con la paura di poter essere destituiti dei loro tradizionali benefici. In Egitto per esempio, ben inteso che Mubarak non sarebbe durato a lungo, la complicità offerta dall’esercito verso i manifestanti di piazza Tahrir ha mostrato quanto i militari non siano affatto disposti a cedere le poltrone del potere (su cui siedono d’altra parte ininterrottamente dal 1952, dalla caduta del re Farouk). I pasdaran, invece, sono stati i figli della rivoluzione islamica – formalizzati in istituzione militare solo dopo il 1979. Sottoposti all’autorità del grande ayatollah Khomeini si concepiscono come i guardiani della rivoluzione e soprattutto sono intrisi di quel miasma tra islam e potere che inibisce qualsiasi forma di scissione tra scopi politici e religiosi.

Molto diverso è il caso delle varie armées arabe, le quali, al contrario, sono istituzioni assolutamente laiche e anzi ostili alle forze islamiste. Non dimentichiamo che i regimi autoritari nel mondo arabo sono stati fino ad ora sostenuti dall’Occidente – e in particolare degli Stati Uniti – proprio in virtù della loro capacità di reprimere le forze islamiste radicali. Il re nudo del contraddittorio rapporto tra Occidente e autoritarismi arabi fino ad ora è stato incarnato proprio dalla certezza che, in presenza di elezioni realmente democratiche, i partiti islamisti sarebbero dappertutto al potere nella regione.

Ma quali sono le reali possibilità di una transizione democratica? Se certamente la grandezza delle manifestazioni cui stiamo assistendo risiede proprio nel loro nascere dal basso nel contesto di società tradizionalmente abituate a funzionare dall’alto, c’è tuttavia un elemento di drammaticità che le accomuna: in tutti i casi quello che davvero manca alla forza dei movimenti è la preparazione di una transizione, necessaria perché, dopo il crollo del sistema, un potere migliore di quello precedente possa essere instaurato. Così come manca del tutto un environment favorevole al passaggio verso la democrazia. Ben differentemente da quello che avvenne per i regimi dell’Europa dell’Est post ’89, che avevano una congiuntura internazionale a loro vantaggio, oltre che la forza catalizzatrice, inclusiva e geograficamente prossima dell’Unione europea, ai regimi arabi manca del tutto un’entità polarizzante che possa accompagnare l’instaurazione di regimi liberali e democratici. Difficile pensare che questo ruolo possa davvero essere giocato dagli Stati Uniti, i quali hanno collezionato troppi errori nella loro politica estera in Medio Oriente, oltre ad aver sostenuto fino a poche settimane fa proprio quei regimi oppressivi contro cui la gente è scesa in piazza; nel caso differente dell’Iran sono ancora troppo nitide nella memoria di tutti le elezioni del 2009 per pensare che il popolo iraniano faccia affidamento sul sostegno degli Usa in questa nuova edizione della sua lotta per la libertà.
 

Se guardiamo invece al mondo arabo, quali sono gli unici attori strutturalmente in grado di gestire la transizione? Le forze militari e i partiti islamici sembrano essere ovunque gli unici presenti all’appello. Le prime, considerate dappertutto funzionali alla protezione del potere autoritario, come ho già evocato, costituiscono già in tutti i paesi arabi l’istituzione meglio organizzata dello Stato e beneficiaria di una parte consistente del Pil anche nei paesi più poveri e meno belligeranti. I secondi rappresentano invece la forza più repressa ma in realtà sempre più ricca di consensi.

La rivoluzione egiziana ha trovato il suo principale terreno di fioritura nel malcontento di quel 20 percento della popolazione che vive con meno di 2 dollari al giorno e nella frustrazione di una gioventù senza lavoro. Ma durante i 18 giorni di rivolta è stato sorprendente quanto l’armée da un lato e i “Fratelli Musulmani” dall’altro siano stati abili nel cavalcare la frattura creatasi senza preavviso tra popolo e stato. Per quanto riguarda l’atteggiamento dei militari, una volta escluso il miracolo della “rivelazione democratica”, esso non rivela, a ben guardare, proprio nulla di nuovo; si inserisce invece nel solco della più consuetudinaria tradizione populista che caratterizza gli autoritarismi militari del mondo arabo e li distingue da quelli più elitari e burocratici di altre zone del mondo. L’obiettivo dell’esercito è stato chiaro fin dall’inizio della rivoluzione egiziana: garantirsi il posto d’onore nella transizione e limitare il più possibile la perdita dei suoi benefici. La condicio sine qua non era non inimicarsi il popolo.

Non da meno tuttavia sono stati i Fratelli Musulmani, i quali hanno saputo creare nel giro di pochi giorni una rete impeccabile di supporto ai manifestanti – cibo, acqua, soldi – mostrando una imprevedibile capacità di mobilitare, gestire risorse e agire da catalizzatori sociali. D’altra parte il consenso di questo partito è andato incredibilmente crescendo negli ultimi anni, nonostante la perpetua vessazione da parte del regime di Mubarak soprattutto grazie a politiche di “welfare informale” messe in atto nelle aree del paese in cui lo Stato è il grande assente. È chiaro dunque che i Fratelli Musulmani non potranno facilmente essere messi fuori gioco nella prossima formazione di governo. Quanto grande sarà il peso del partito islamista a transizione compiuta è difficile da prevedere; certo è però che un “Egitto islamico” avrebbe un effetto di radicalizzazione ideologica su tutto il mondo arabo. La prima potenziale conseguenza sarebbe infatti la rottura della pace con Israele – cosa peraltro non da escludere, visto che riporterebbe all’Egitto tutte quelle prerogative per poter esercitare una leadership regionale, che furono disconosciute da parte degli altri paesi arabi nel 1979 (data della pace con lo stato ebraico). I rischi di un nuovo conflitto arabo-israeliano a questo punto sarebbero elevatissimi.
 

Ma se ritorniamo anche in Tunisia le analogie strutturali con l’Egitto sono eclatanti: l’estrema inconsistenza di un’opposizione organizzata ha fatto sì che l’esercito si autoproclamasse immediatamente garante della costituzione e della “rivoluzione dei gelsomini” mentre da alcune settimane il leader dell’opposizione islamica Rachid Gannouchi è ritornato nel paese, innalzando lo stendardo di una nuova era democratica sotto l’egida di un Islam moderato. I problemi che hanno portato all’esplosione del malcontento popolare in Tunisia non sono legati alla povertà del paese o ad un’economia lenta, che al contrario in questi ultimi anni ha conosciuto forse il periodo più fiorente della sua storia (esattamente il motivo per cui la Francia si è trovata completamente impreparata di fronte alle manifestazioni). Lo squilibrio nella Tunisia di Ben Ali era invece tutto nella distribuzione ineguale della ricchezza del paese, che ha creato un divario sempre più ampio tra un ceto privilegiato e corrotto e una popolazione sempre più vessata dall’aumento dei prezzi e dalla disoccupazione ormai data al 20 percento.

È evidente che, se l’esercito prendesse il potere, la situazione non cambierebbe di molto. Una caratteristica peculiare delle varie armées arabe è la familiarità con i privilegi. Probabilmente qualche riforma ci sarebbe ma di certo la via democratica sarebbe esclusa dagli scenari futuri. Non dimentichiamo che Ben Alì proveniva proprio dalle file dell’esercito. Se al contrario fosse l’Islam a prendere il potere in Tunisia, il regime virerebbe in chiave antioccidentale verso lo statalismo, opponendosi ai principi di un’economia di mercato (verso cui il paese è già sostanzialmente avviato); a ciò poi si aggiungerebbe un’inversione di rotta nel processo di modernizzazione dello stato, con buona pace delle sue recenti conquiste liberali (a cominciare dai diritti delle donne, non casualmente le prime a protestare contro il ritorno di Gannouchi).

Il binomio esclusivo dell’alternativa “militari-partiti islamici”, dunque, induce forti dubbi sul fatto che la democrazia possa essere la chiave delle transizioni di regime in corso nel mondo arabo. I due potenziali attori sono di fatto identitariamente alieni ad essa. Entrambi sarebbero ostili ad una ritrazione dello Stato dalla sfera pubblica e alla rinuncia di una concentrazione elitaria del potere. Inoltre un governo islamico – per quanto nella migliore delle ipotesi discretamente liberale – porterebbe ad un’applicazione più ortodossa della sharia, che si tradurrebbe nell’arresto di una serie di riforme riguardanti i codici di statuto personale, della famiglia, per non parlare dei diritti delle donne. Dall’altro lato però è evidente che il passaggio al nuovo ordine non potrà più permettersi l’esclusività del potere per non incorrere in nuove rivoluzioni.

Quale potrebbe essere dunque il nuovo volto di questi regimi? L’applicazione del modello liberale occidentale appare tanto ingenua nella sua proposizione quanto irrealizzabile nei fatti e moltissime controindicazioni le presenterebbe anche il modello turco, anch’esso invocato negli ultimi giorni come esemplare da importare: la Turchia è uno Stato-nazione, con una cittadinanza nazionale discretamente matura che ha cognitivamente acquisito la nozione di secolarizzazione. I paesi arabi sono Stati senza nazioni e all’interno di essi la religione non è concepita come scissa dalla sfera del potere. Questo è il motivo per cui l’Occidente ha sempre temuto il volto arabo dell’Islam, preferendo, alla sua manifestazione, il carattere repressivo di regimi laici.
 

Un modello realistico – e in fondo auspicabile – potrebbe essere rappresentato invece da paesi come la Giordania o il Marocco. Re Abd Allah ha dovuto confrontarsi con una folla di manifestanti – è  vero – ma il contesto politico giordano è del tutto differente da quello tunisino o egiziano; qui il popolo non ha chiesto la testa del sovrano per un motivo ben preciso: nella monarchia giordana (come in quella marocchina) sebbene il potere sia autoritario, il re non monopolizza la sfera pubblica ma garantisce un discreto livello di pluralismo politico, lasciando spazio anche alle forze islamiche, in modo da porsi come arbitro del potere, ma non sua incarnazione. In un contesto del genere è altamente improbabile che la protesta possa rivolgersi contro un unico individuo, perchè esiste di fatto un immaginario molteplice della sfera del potere. Ma se un maggiore pluralismo sarà senza dubbio necessario per stabilizzare la situazione in Tunisia e in Egitto, un sistema politico più inclusivo non vuol dire affatto democrazia.

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