Il colonello libico annuncia in diretta televisiva il suo martirio, mentre – disperato – fa sparare dall’aviazione addosso ai manifestanti, in un massacro che conta oltre mille morti nel suo parziale bilancio. Mentre tutto l’occidente guarda con crescente preeoccupazione una crisi che si sta espandendo a macchia d’olio in tutti i paesi arabi, ad alzare ulteriormente il livello di guardia del vicino Israele ci pensa Ahmadinejad.



Due navi iraniane hanno passato il canale di Suez e puntano diritte verso il porto siriano di Latakia. Era dal 1979, quando Khomeini prese il potere, che non si assisteva a un fatto del genere. Nulla di illegittimo a dire il vero, il transito è garantito dalla convenzione di Costantinopoli del 1988 che prevede il passaggio di navi militari nel canale «in tempo di guerra come in tempo di pace, senza distinzione di bandiera». Ma in Israele fanno giustamente notare che in passato l’Iran non ne aveva mai chiesto l’autorizzazione. Insomma, ciò che Mubarak ha impedito per 30 anni, il regime militare che presiede il governo al Cairo ha concesso in un paio di giorni. Per lo storico Uzi Rabi, dell’Università di Tel Aviv, il messaggio di Teheran è evidente: “L’Iran vuole dire a tutti che è qui mentre gli Stati Uniti si stanno indebolendo. Stati come l’Egitto non sono più dei pilastri filoccidentali in Medioriente. E penso che l’Iran stia cercando di sfruttare al massimo la situazione inviando segnali che tutto il Medioriente dovrebbe leggere in modo diverso, in termini geopolitici”.



Il ministro degli esteri israeliano Lieberman ha parlato di provocazione e ha aggiunto che il suo paese non sarà disposto a “tollerare nuovamente atteggiamenti di questo tipo”. Non ha escluso l’ipotesi di una controffensiva, difficile – per ora – da ipotizzare. Anche se in America, proprio ieri, sono stati testati con successo alcuni missili israeliani. Il governo rivendica la casualità nella coincidenza degli eventi, ma il livello di allerta è altissimo. Soprattutto se ripercorriamo tutte le recenti dichiarazioni dei leader arabi contro lo stato ebraico.

Lo stesso Gheddafi ha espresso recentemente il desiderio di vedere un “Medioriente senza Israele”. Lo ha liquidato due giorni fa con una battuta Simon Peres, presidente dello stato ebraico: “Sembra invece che vedremo una Libia senza Gheddafi”. Nelle sue parole, pronunciate alla comunità ebraica di Madrid all’inizio del suo viaggio in Spagna, c’è cauto ottimismo. Le sue dichiarazioni sono state accolte tra lo stupore e l’incredulità nell’opinione pubblica israeliana. Perché che il leader di uno stato filo-occidentale in mezzo a così tanti popoli arabi colpiti da una crisi senza precedenti si dica “pieno di speranza” di fronte a un futuro così incerto è una notizia.



Alla faccia di chi si aspettava gli eserciti della mezzaluna pronti a marciare per rivendicare la supremazia della legge coranica sulle costituzioni dilaniate dai dittatori nel corso di questi anni. Ma Peres incalza: “Vinceranno i moderati, i giovani, coloro che vogliono la democrazia, e non i tiranni o i corrotti”. Il presidente guarda con simpatia le rivoluzioni di questi giorni e ai giornalisti che gli chiedono cosa cambierà in Israele dopo questo periodo, risponde con speranza: “Sono fiducioso che più democrazia negli Stati arabi potrebbe aiutare il processo di pace in Medioriente e risolvere la questione palestinese”. Anche se il momento non è dei migliori. Mentre tutti i riflettori sono puntati su Tripoli, in Israele gli insediamenti continuano a crescere e sembra che la comunità internazionale da oggi abbia un alleato in meno per porvi fine.

Solo qualche mese fa il premio Nobel per la pace Barak Obama si era espresso contro la costruzione di nuovi settlement nei territori palestinesi, che costituirebbero “un grave danno per il processo di pace”. Un affermazione condivisa anche dall’ex primo ministro Olmert e riaffermata con forza in questi giorni dall’ONU. Gli Usa erano pronti ad approvare un testo di condanna di Israele, anche se con forma meno forte e non vincolante, rispetto alla dichiarazione presidenziale del Consiglio delle Nazioni Unite. Eppure Obama all’ultimo istante si è opposto e ha votato contro, senza giustificare un così incomprensibile atteggiamento. Abu Mazen si aspetta ancora che la comunità internazionale riconosca lo stato palestinese. Mentre oggi sono sempre di più quelli che lo incoraggiano a protestare con i giovani in piazza a Ramallah. Egitto docet.

(Andrea Avveduto)

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