La perpetua instabilità sembra essere da oltre 35 anni la maledizione del Libano, attraversato nelle ultime settimane dall’ennesima crisi di governo. Lo spostamento di maggioranza parlamentare dalla coalizione del 14 marzo, con a capo l’ex premier Saad Hariri, alla coalizione dell’8 marzo, guidata dal partito di Hezbollah (lett. Partito di Dio, ndr), ha portato il 24 gennaio scorso all’elezione alla carica di Primo Ministro del miliardario sunnita Najib Mikati, designato dal “Partito di Dio”. Quest’ultimo, supportato dal regime siriano e da quello iraniano, cavalca la fragile tenuta del sistema politico e fa prevedere una messa in crisi del processo di democratizzazione che fino ad ora ha fatto del Paese dei Cedri un unicum tra i regimi del mondo arabo.



Ma per comprendere la natura degli eventi si deve andare un po’ a ritroso nel tempo. L’impasse governativa che per mesi ha bloccato il Parlamento libanese è legata alla legittimità del TSL (Tribunale Speciale per il Libano), istituzione dell’Onu, incaricata di individuare i colpevoli dell’attentato che il 14 febbraio 2004 uccise l’ex premier Rafic Hariri e altre 19 persone. Il blocco del 14 marzo, capeggiato da Saad Hariri, figlio di Rafic, la cui vittoria alle elezioni nazionali del 2009 era stata accolta dai sunniti libanesi come una sorta di risarcimento per l’assassinio del loro leader, ha sempre sostenuto l’organo giuridico delle Nazioni Unite.
Hezbollah, al contrario, assieme ai suoi alleati dell’8 marzo, si è costantemente fatto promotore di una feroce denigrazione del TSL, stigmatizzato come strumento politico nelle mani degli americani e degli occidentali e ha più volte minacciato di ricorrere alle armi qualora la sentenza – di fatto depositata dal Tribunale il 12 gennaio scorso ma non ancora resa pubblica – dovesse ricadere su qualcuno dei suoi componenti.



La gestione della crisi politica libanese ha visto montare negli ultimi mesi un attivismo indefesso sul piano internazionale, a dimostrazione ulteriore di quanto precaria sia la sovranità del Paese dei Cedri, da sempre in balia dei giochi strategici delle potenze regionali e globali. Due logiche opposte, in particolare si sono scontrate. E quella che ha prevalso non si sta dimostrando capace di allontanare il Libano dai rischi gravissimi cui sta andando incontro.
 

La prima soluzione logica, quella che ha fallito, era sostenuta da Arabia Saudita, protettrice storica della famiglia Hariri, e Siria, sostenitrice di Hezbollah, direttamente implicata nella questione del Tribunale come potenziale mandante dell’assassinio di Rafic Hariri, costretta dopo la “Rivoluzione dei Cedri” del 2005 a rimuovere il controllo militare che esercitava sul paese dai tempi della guerra civile e ansiosa di ritornare a tendere la sua longa manus sul Libano.
La soluzione siro-saudita si fondava sostanzialmente sul raggiungimento di un accordo interno tra le parti politiche, teso a preservare l’equilibrio interconfessionale che caratterizza il Paese dei Cedri e in particolare a contenere la tensione tra sunniti (sostenitori di Hariri) e sciiti (la cui principale forza rappresentativa è proprio Hezbollah). A fronte della richiesta di Hezbollah di un totale disengagement del governo libanese dal Tribunale Onu, la mediazione siro-saudita prospettava più moderatamente l’ipotesi di un possibile passaggio della competenza del processo d’appello degli imputati individuati dal TSL alla Corte Costituzionale libanese – de facto una delegittimazione soft del Tribunale.



La seconda logica, sostenuta principalmente dagli Usa, palesemente contro la politica di ricatto del partito di Dio – e dunque ostinatamente impegnata perché il TSL porti a termine il suo compito come previsto dal protocollo originario – ha come principio fondante l’affermazione indiscussa dell’autorità del diritto internazionale.
La vexata quaestio del TSL costituisce in realtà per gli Stati Uniti molto più che un gioco di forza con il partito islamico di Hezbollah: una delegittimazione del Tribunale Onu sancirebbe per l’ennesima volta il fatto che l’Occidente non è più in grado di svolgere la funzione di stabilizzatore della regione mediorientale. Far fallire il TSL sarebbe di fatto uno smacco contro l’immagine stessa dell’Occidente, un rifiuto di quell’apparato ideologico che permea le istituzioni internazionali che l’Occidente ha messo in piedi dopo la seconda guerra mondiale. E questo peraltro avverrebbe proprio nel momento in cui i regimi politici appoggiati degli Usa nella regione stanno crollando uno dopo l’altro.
 

Ma se la strategia statunitense sulla questione libanese era quella di una perentoria e diretta resa dei conti con Hezbollah, al fine preciso di indebolire il partito islamico sciita, l’emissione inattesa della sentenza del Tribunale ha nel giro di pochi giorni messo a nudo l’inconsistenza dei calcoli dell’amministrazione americana. Una dinamica di effetti a catena, impeccabilmente architettata, si è infatti abbattuta in tutta fretta sul governo Hariri: 11 ministri appartenenti a Hezbollah e ai suoi alleati hanno presentato le dimissioni al fine di far venir meno i 2/3 di rappresentanza parlamentare previsti dalla costituzione perché il mandato governativo possa essere portato avanti.
Subito dopo l’”emigrazione” del leader druso Walid Jumlatt e dei ministri del suo Partito Socialista, dalla coalizione del 14 marzo verso quella dell’8 marzo ha determinato un’inversione della maggioranza, permettendo così al partito di Nasrallah e ai suoi alleati di imporre il suo candidato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri (69 consensi su 128), con buona pace della popolazione sunnita, la cui immediata protesta scoppiata a Tripoli, Beirut e a Sidone si è spenta quasi prima di cominciare.

Ma oltre ad aver perso un governo filo-occidentale, adesso al danno potrebbe aggiungersi la beffa. Il Tribunale delle Nazioni Unite infatti sembra comunque destinato a fallire. Da una parte coloro che in Libano premono per una revisione dell’accordo di cooperazione firmato tra il Libano e il TSL – e che, non dimentichiamo, da pochi giorni tengono le redini del governo – hanno una motivazione forte per affermare che i pacta in questo caso non sunt servanda: il protocollo con cui lo Stato libanese nel 2005 conferì all’organo giuridico dell’Onu la piena autorità sul corso delle indagini oltre che sulle competenze processuali, è oggettivamente incostituzionale. Esso fu infatti approvato dal Consiglio dei Ministri ma non firmato dal Presidente della Repubblica e, nonostante ciò, inviato in Olanda dove ha sede il TSL.

Ma anche qualora il protocollo rimanesse valido, c’è un’altra motivazione che rende di fatto il Tribunale già fallito: se la sentenza dovesse pendere, come si attende, su alcuni esponenti del Partito di Dio, le istituzioni di polizia libanese hanno di fatto le mani legate di fronte all’esecuzione di un mandato di cattura. Nelle zone del Libano controllate da Hezbollah (peraltro detentore di milizie autonome di fronte a cui si stima che nemmeno l’esercito sia in grado di tener testa) lo Stato semplicemente non interferisce. Questo fa parte della strategia di mantenimento di un sistema in cui il confessionalismo è la cifra di ogni dinamica politica e sociale.
 

Non dimentichiamo per esempio che il famoso 7 maggio 2008, quando gli Hezbollah invasero Beirut, l’esercito ebbe l’ordine tassativo di non intervenire. È quello che i sunniti non perdoneranno mai allo Stato libanese ma è anche prova del fatto che difficilmente essi ammireranno ciò che aspettano da quel 14 febbraio 2004: il corso della giustizia che si compie. Molto più probabilmente invece vedranno montare la forza del Partito di Hezbollah e delle altre componenti sciite (rappresentanti ormai della comunità confessionale più grande del paese) che distoglieranno lo sguardo del Libano liberale da quell’Occidente ormai sempre più lontano, per dirigerlo verso i regimi autoritari loro alleati, la Siria e l’Iran.