Ha vinto il Sì: con il referendum per l’autodeterminazione del Sud Sudan è stato portato a termine un percorso a ostacoli che pareva interminabile. Cerchiamo di capire come si è arrivati a questo punto e cosa dobbiamo aspettarci per il futuro prossimo del più esteso paese del “continente nero”.
Innanzitutto, è utile sottolineare come il Sudan, sebbene sia il Paese africano più vasto e con un territorio ricchissimo di materie prime, si trovi soltanto al 150° posto (su un totale di 177 paesi) negli indicatori di sviluppo. Instabile sin dall’indipendenza nel 1956, qui la legge militare ha sempre avuto il sopravvento.
Una combinazione distorta di fattori etnici, religiosi ed economici, qualche anno più tardi, ha fatto sì che il Sudan conoscesse un periodo di guerra civile durato circa 20 anni, fino al 2005. La guerra più lunga dell’ultimo secolo, dove le persone nate dopo l’indipendenza hanno conosciuto ben pochi intervalli di tregua.
Il Presidente Al Bashir guida la nazione dal colpo di Stato del 1989. Da subito ha dichiarato lo stato d’emergenza, mettendo al bando tutti i partiti d’opposizione, negando la libertà di espressione e obbligando tutti quanti al rispetto della Sharia.
Il conflitto è terminato con la firma di un “Comprehensive Peace Agreement” (Cpa), tra il Governo di Karthoum e il Movimento/esercito di liberazione del popolo sudanese. Il Cpa include disposizioni sulla condivisione delle ricchezze e del potere: una road map verso le elezioni democratiche e l’autodeterminazione del Sud.
In generale, però, l’implementazione del Cpa si sta rivelando molto difficile. La sfiducia tra le due parti in causa non si è mai sopita, inoltre la mancata inclusione di alcuni importanti attori e il conflitto in Darfur hanno intralciato non poco il processo in corso. Riguardo all’organizzazione dell’autodeterminazione del Sud Sudan, alcuni aspetti chiave restano irrisolti.
Per quanto riguarda la demarcazione dei confini tra i due territori, la corte permanente di arbitrato per i confini della regione di Abeyi, ricca di petrolio, è stata risolta in favore di Karthoum: questo significa che le rimostranze del sud non si faranno attendere a lungo. A ciò si lega il secondo punto di sicura collisione, vale a dire la ricerca di accordi sulla gestione di petrolio e acqua.
Siamo di fronte al più significativo cambiamento di confini in Africa dai tempi della decolonizzazione: questo potrebbe a breve avere un’importante influenza su altri movimenti secessionisti che hanno già minacciato in passato la stabilità del continente africano. Proprio in Sudan la popolazione del Darfur diventerà un terzo del totale e acquisterà relativa importanza.
Altri nodi difficili da sciogliere per il sud indipendente sono i gravi problemi di bilancio, l’enorme corruzione, ufficialmente riconosciuta come un peso ormai insopportabile e i numerosi scontri interetnici, fomentati da personalismi e tentativi di destabilizzazione, che hanno provocato migliaia di vittime negli ultimi anni.
Il nuovo Governo dovrà costruire una nuova amministrazione, infrastrutture e servizi essenziali. Ma dovrà soprattutto fare i conti con il grandissimo numero di persone che si sono rifugiate in Uganda negli ultimi decenni e che certamente sono incoraggiati a un ritorno in patria.
La fine di un conflitto che ha provocato milioni di morti è una notizia positiva, così come la prospettiva della nascita di una democrazia. Visto quanto ho cercato di raccontare, la strada è ancora molto lunga. Molto dipenderà dalla qualità delle relazioni tra Nord e Sud, che dovranno innanzitutto mettere da parte la diffidenza reciproca.
In questo conterà molto il ruolo della comunità internazionale, con in testa Europa, Stati Uniti e Cina (che sfrutta in grandissime quantità le materie prime sudanesi). Anch’essi però dovranno saper collaborare serenamente e senza pregiudizi di tipo ideologico.