Ieri a Shindand, nell’ovest dell’Afghanistan, è morto il tenente Massimo Ranzani e altri quattro militari italiani sono rimasti feriti gravemente. I cinque uomini erano a bordo di un blindato Lince quando il mezzo è stato colpito da un ordigno. «Questi attentati si inseriscono in un quadro generale che non è cambiato, e che potrebbe rimanere costante» dice Gregorio Giungi, analista politico-militare e collaboratore di Equilibri.net. Il sussidiario ha parlato con Giungi dei due principali fronti caldi del nostro paese, l’Afghanistan e la Libia.



Secondo i mezzi di informazione l’attacco è stato rivendicato dai talebani.

“Talebani” è un termine generico che si usa sommariamente sui media per indicare più attori. In queste zone sono forti le formazioni paramilitari legate alla produzione di oppio, a clan particolarmente forti di signori locali e alla locale criminalità organizzata. Qui sono anche presenti le rade cellule della Al Qaeda afghana, che però contano poco o nulla nel decision making process delle operazioni di insurgency.



Il 18 gennaio scorso in un agguato ha perso la vita il caporalmaggiore Luca Sanna, ieri è toccato a Massimo Ranzani. Le azioni contro gli italiani sono aumentate?

Sì. È l’esito delle tecniche di infiltrazione usate dall’insurgency. In vista dell’imminente ritiro generale di Isaf (da completare nel 2014, ndr), gli angloamericani di Enduring freedom hanno iniziato a martellare l’insurgency nelle loro relative zone, il settore est e quello sud del paese.

E dunque cosa sta succedendo?

Accade che quando la pressione militare sui rivoltosi aumenta, questi se ne vanno e “sfiltrano” in altra zona. Gli italiani ne sanno qualcosa e già dal 2006: gli attacchi contro di noi nella Valle Musai sono il risultato di queste “migrazioni” di guerriglieri in zone prima tranquille. Paradossalmente, però, questi episodi non sono affatto la dimostrazione che i rivoltosi diventano più forti o prendono il controllo tattico, ma che sono in minoranza nelle zone dove si concentrano le operazioni della coalizione. E che sono costretti a spostarsi dove c’è un membro della coalizione meno agguerrito di altri.



Sta dicendo che subiamo le conseguenze del lavoro altrui?

Esatto. Si spostano e vengono nel nostro settore, e sempre, guarda caso, nelle zone a maggioranza Pasthun: Farah, Shindand, Bala Murghab. La guerriglia antioccidentale  è eminentemente un fatto Pashtun, non delle altre etnie dell’Afghanistan. E i gruppi locali, anche se pacifici, sono in qualche modo tenuti dal loro codice d’onore ad assistere passivamente i guerriglieri che filtrano dalle zone più calde. Episodi come quello di ieri sono comunque, ripeto, una dimostrazione paradossale che nei settori più caldi le operazioni vanno avanti con successo.

 

Perché ha detto che l’Italia è un membro della coalizione «meno agguerrito» di altri? Manchiamo di preparazione?

 

Non è questo il punto. È che tra i vari membri della coalizione l’Italia non può, né deve essere la nazione più agguerrita. Dobbiamo sempre tener presente una cosa che si tende a dimenticare, e cioè che in Afghanistan sono operanti in realtà due differenti missioni. Quella che fa guerra a tutti gli effetti è Enduring freedom, non Isaf: noi facciamo parte di quest’ultima, mentre la prima è fatta dalle tre nazioni che hanno attaccato l’Afghanistan e cioè Stati Uniti, Inghilterra e Canada. Ripeto, non siamo i più agguerriti né dobbiamo esserlo dal punto di vista dei nostri obiettivi politico-militari.

 

Che peso ha la scadenza fissata della missione Isaf?

 

È un fattore decisivo. Nella mentalità di questi gruppi afghani armati gioca un aspetto poco razionale, apparentemente lontano dalla condotta dell’uomo in guerra e più afferente alla sfera antropologica e culturale. È proprio quando il nemico si ritira che questi vanno a colpire di più. Se il nemico se ne va, vuol dire che è più debole. Se lo colpiscono, passa il messaggio che sono stati loro a farlo andare via.

 

Ora però siamo ancora nel 2011…

 

Se Isaf deve smobilitare definitivamente entro il 2014, il grosso delle operazioni dovrebbe però concludersi entro il corrente anno. Questo fa dire che siamo in procinto di andarcene, perché da un punto di vista militare e strategico siamo entrati effettivamente nella fase finale.

 

La conseguenza della sua tesi allora è che questi attacchi si intensificheranno.

Mi arrischio a dire che rimarranno di una frequenza costante. Non si può prevedere cosa accadrà, ma non credo che diminuiranno.

 

Cambiamo scenario. Gheddafi è al capolinea?

 

A mio modo di vedere, se non ci sarà un intervento internazionale, o se esso non si concretizzerà in qualcosa di più consistente e influente delle sanzioni, il paese va verso una separazione de facto in due entità: la Tripolitania, dove in qualche modo il clan Gheddafi rimane al potere, e la Cirenaica, guidata da una nuova classe dominante. Una Libia divisa in due grandi gruppi socialmente differenziati, premessa per la divisione in due stati. Uno controllato da Gheddafi e l’altro non si sa ancora bene da chi. Potrebbe perfino tornare in gioco gli uomini della Senussia, come ha scritto Carlo Jean sul Messaggero.

 

Secondo lei possiamo davvero attenderci un intervento internazionale capace di incidere?

 

Considerando la mozione dell’Onu che è stata adottata, direi che si sta andando proprio in quella direzione. Sono i passaggi che hanno preceduto altre situazioni analoghe, dal Kosovo all’Iraq: quando c’è di mezzo il tribunale penale internazionale e la pronuncia per crimini cdi massa, dopo un po’ l’intervento militare arriva. Se ci sarà, ci scorderemo del signor Gheddafi. Se non ci sarà, la Libia potrebbe rimanere in piedi in uno stato di crisi latente, però di fatto separata in due nazioni diverse.

 

Lei insiste su questa separazione, perché?

 

Perché i nodi della storia prima o poi vengono al pettine. La Libia è una creazione coloniale. Essa è fatta di due entità etniche e culturali distinte, la Tripolitania e la Cirenaica. Sono state tenute insieme da noi ma corrispondono a due unità sociopolitiche differenti. La Cirenaica, di ceto più elevato, è costituita dei discendenti della vecchia casta militare. Un ceto che di sicuro non potremmo definire incline all’integralismo religioso, ma nemmeno integralmente laico. È questa la parte più vicina al sentimento religioso e soprattutto sono gli uomini eredi del vecchio potere, quello che esisteva da prima ancora che venissero gli italiani. In Tripolitania abbiamo i parvenu del paese, laici, che non vogliono saper niente di potere religioso. Sostengono Gheddafi, che guarda caso è stato uno dei capi arabi più scomunicati: ha osato dire che i pilastri dell’islam non sono più cinque ma quattro, perché ha negato la validità dell’hajj, il pellegrinaggio, e questa è una bestemmia. In Tripolitania è dominante un ceto assolutamente laico che ha tenuto in piedi la Libia come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi.

 

Ieri il portavoce della Casa Bianca ha detto che «tutte le opzioni restano sul tavolo, compreso l’esilio». Scontata la risposta di Gheddafi. Come giudica la politica americana?

Si stanno comportando con la saggezza della contingenza, in Libia come nel caso dell’Egitto. Non penso che a dispetto di quello che possono ancora dire tanti dietrologi, quello che abbiamo visto in questo mese abbia a che fare con le famose attività di sobillazione della Cia. È vero che negli Usa sono soprattutto i governi democratici a fare una politica di intervento internazionale servendosi dei servizi segreti, , ma credo che quello che è successo nel Maghreb abbia altre radici. Nel caso della Libia, un fenomeno spontaneo che Gheddafi non ha trattato in modo molto lungimirante. Concedere a Gheddafi l’esilio non è la soluzione più saggia. Quella più razionale, ahimè, è toglierlo di mezzo e mi sembra che si stiano muovendo per favorire questo tipo di soluzione.

 

Molti dicono che la politica di questa amministrazione americana non ha un vasto respiro strategico.

 

Vero. Ma questo è un problema storico: gli Usa una politica di ampio respiro strategico non l’hanno mai avuta, e non si tratta di democratici o di repubblicani. O meglio, non hanno una politica che va oltre il medio termine, coincidente con i due classici mandati presidenziali consecutivi.

 

(Federico Ferraù)

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