Il Dalai Lama ha annunciato l’intenzione di rinunciare al ruolo di guida politica dei tibetani in esilio. Il capo del governo sarà eletto, in futuro,  democraticamente.

Il Dalai Lama rinuncia al suo ruolo politico. D’ora in avanti, il capo del governo tibetano in esilio sarà «liberamente eletto». La guida spirituale dei buddisti tibetani ha comunicato la sua decisione in occasione del messaggio pronunciato per il 52esimo anniversario della sollevazione popolare contro l’occupazione cinese del Tibet. La data è significativa: nel 1959 la rivolta venne schiacciata dall’esercito cinese, e Tenzin Gyatso fu costretto a fuggire in India. Da allora, risiede, così come il Parlamento tibetano esiliato, a Dharamsala, in India.



«Il mio desiderio di trasmettere i poteri – ha detto – non ha nulla a che vedere con la rinuncia alle mie responsabilità: è per il bene a lungo termine dei tibetani, non perché mi senta scoraggiato». Il 75enne premio Nobel per la pace ha detto di stare pensando ad un emendamento che gli consenta di dimettersi dalla sua carica politica quando, la prossima settimana, il parlamento tibetano in esilio si riunirà.  L’intenzione è quella di apportare le dovute correzioni alla Carta dei tibetani in esilio. La scelta di importanza epocale, non sopraggiunge, tuttavia, inaspettatamente.



CLICCA >> QUI SOTTO PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO

Nel novembre scorso, in un’intervista, aveva riferito che entro sei mesi avrebbe abdicato dal suo ruolo politico, sottolineando le oppressioni cui sono sottoposti i tibetani e il «profondo risentimento contro le politiche ufficiali».

 

Tenzin Gyatso aveva auspicato che si riprendesse a inviare delegazioni in Tibet per verificare le condizioni di vita di chi vi risiede, assieme a rappresentanti di organismi internazionali. La guida dei buddisti si era anche detto disposto a rinunciare allì’indipendenza del proprio Paese in cambio di una sostanziale autonomia. «Usa la bandiera della religione per coprire le sue attività secessionistiche», è stato il commento di Pechino alla decisione di ritirarsi, definendola «un trucco per ingannare la comunità internazionale».