La controffensiva di Gheddafi in Libia apre scenari nuovi per la regione nordafricana e, di riflesso, per l’Europa. L’annunciata caduta del regime del Colonnello non si è ancora verificata, mentre Bruxelles si interroga sulla possibilità di appoggiare una “no flight zone” oltre alle già approvate sanzioni economiche.
L’Europa si è mobilitata stringendo il cerchio attorno a Gheddafi, tramite il congelamento dei fondi sovrani libici, secondo alcune stime pari a circa 60 miliardi di euro. Dopo che la settimana scorsa erano stati bloccati i beni del leader libico e di altre 25 persone tra familiari e soggetti a lui vicini, questa volta Bruxelles ha spostato il proprio obiettivo sulla Banca Centrale Libica e sulla Libyan Investment Authorithy (Lia).
La decisione presa dai 27 dell’Unione europea segue di alcuni giorni le misure analoghe implementate da Stati Uniti e Gran Bretagna nei giorni scorsi, i quali avevano già congelato circa 50 miliardi di euro. Oltre allaBanca Centrale e al “Fondo Lia”, le misure intraprese prendono di mira anche la Libyan Foreign Bank, il Libyan Investment African Portfolio e il Libyan Housing Infrastructure Board.
Per comprendere il reale livello di incidenza del congelamento degli assets finanziari libici in Europa, basta osservare i cables di Wikileaks recentemente pubblicati dal Daily Star, secondo i quali la Libyan Investment Authorithy deteneva quote di svariate società europee. Nutrita la lista di quelle italiane: UniCredit, ad esempio, dove la Lia controlla il 2,6% delle azioni, alle quali si aggiunge il 4,6% controllato dalla Banca Centrale Libica. Finmeccanica, con il 2% delle quote gestito da fondi libici; e poi l’Eni con l’1%, la Juventus con il 7%, passando per Fiat e Telecom Italia.
Per volume di investimenti libici all’estero segue la Gran Bretagna, dove, oltre a svariati beni mobili e immobili, persino la Pearson, editrice del Financial Times, era controllata per il 3% dalla Lia, così come l’istituto bancario britannico Standard Chartered. In Francia, Bnp Paribas; in Germania, la Siemens; in Austria, la Wienerberger, ovvero la più grande industria di mattoni al mondo: tutte società partecipate da fondi sovrani libici. Fondi che erano diretti anche verso il settore delle grandi multinazionali del petrolio come Royal Dutch e Bp, oltre all’Eni.
Il caos libico rischia quindi di trascinare dietro di sé quote consistenti di multinazionali europee, dal settore industriale a quello dei servizi finanziari, del quale la Libia si è servita dal 2003, anno in cui l’embargo internazionale a cui era sottoposta è venuto meno. Da quel momento, il regime libico e gli istituti a esso collegati hanno cominciato a investire in Occidente e prevalentemente nel Vecchio Continente, sfruttando le enormi disponibilità di liquidità derivanti dall’esportazione degli idrocarburi. Le grandi società europee, soprattutto negli ultimi anni segnati dalla crisi economica, hanno accolto a braccia aperte i libici nei propri consigli di amministrazione, come dimostra il caso dall’istituto bancario Unicredit.
Nonostante gli interessi in gioco siano cospicui, il congelamento dei beni libici investiti in Europa non porterà a stravolgimenti nel mercato comunitario. Ben altri sono i Paesi arabi con interessi ancora maggiori di Tripoli nel Vecchio Continente, come i Paesi del Golfo, ad esempio, per i quali si parla di investimenti pari a 1.500 miliardi di dollari. La minaccia pertanto non viene dal singolo caso libico, bensì dal rischio concreto che le rivolte si diffondano ad altri Paesi arabi, Arabia Saudita in primis. Ma anche Bahrain, Emirati Arabi, Oman e Kuwait dispongono di fondi sovrani potendo disporre di una bilancia commerciale in forte attivo grazie al petrolio e alle sue esportazioni.
Le recenti misure intraprese da re Abdullah in Arabia, tuttavia, non lasciano intravedere nulla di positivo per l’Europa nell’immediato futuro: nel Golfo, per tentare di placare gli animi, porzioni sempre più importanti di quelle liquidità che una volta sarebbero state investite in Europa, ora finiscono per calmierare i prezzi in Patria e scongiurare la diffusione delle rivolte. Per questo stesso motivo, anche le esportazioni di petrolio dai Paesi del Gulf Cooperation Council sono previste in calo per il futuro.
La reale minaccia a oggi sono le enormi disponibilità in denaro depositato nella stessa Libia e di cui Gheddafi può disporre liberamente per pagare i combattenti provenienti dall’Africa sub-sahariana, vera colonna portante dei “lealisti” che stanno tentando in questi giorni di riconquistare il terreno perduto in Cirenaica. Essendo impossibile impedire tale pratica, l’eventualità di un’azione armata in Libia appare sempre più concreta, soprattutto a Parigi.
Sarkozy, il quale ha riconosciuto i rivoltosi di Bengasi come unico interlocutore libico legittimato a dialogare a livello internazionale e che si è espresso decisamente a favore di una “no flight zone”, proporrà tale posizione al vaglio del Consiglio Europeo odierno. Sebbene il futuro di Gheddafi resti ampiamente incerto, le sanzioni economiche internazionali rischiano di rivestire un ruolo marginale nella risoluzione del conflitto libico.
(Luca Gambardella)