Le piazze in rivolta nel mondo arabo si moltiplicano giorno dopo giorno e nemmeno l’Arabia Saudita, il paese che forse più di tutti trema di fronte ad una rivendicazione di diritti e democrazia da parte del suo popolo, è stata risparmiata dalle “giornate della collera”. Sebbene le paventate rivolte siano state immediatamente placate da generose donazioni alla popolazione e dalla polizia che minacciava di rispondere duramente, anche il gigante della penisola arabica traballa come tutti gli altri regimi. In tutta la penisola del Golfo, in realtà, i governi sono i più drammaticamente impreparati al cospetto del nuovo fenomeno rivoluzionario (ad eccezione dello Yemen per la sua specificità storica) ed è proprio qui che la cosiddetta “primavera araba” potrebbe sortire i suoi esiti più inattesi.



Due dinamiche molto differenti tra loro si stanno pericolosamente sovrapponendo e confondendo nelle rivoluzioni del Golfo: in primo luogo le specifiche richieste di modernizzazione politica da parte delle piazze – in particolare la formazione di monarchie costituzionali – potrebbero far implodere il modello stesso su cui questi regimi si sono conformati e assestati a partire dalla scoperta del petrolio nel loro territorio. Le monarchie del Golfo hanno tutte una natura ereditaria e tradizionale, non sono dotate di Costituzioni e separazione dei poteri; le élites politiche “posseggono” in senso letterale lo Stato – si confondono concettualmente con esso – e per proteggersi da qualsiasi eventuale spinta di cambiamento dal basso hanno sempre “drogato” le popolazioni con un assistenzialismo sfrenato e un’imposizione fiscale ridotta ai minimi termini.



Tutto questo è stato possibile fino ad ora grazie all’enorme rendita petrolifera, unica ma immensa fonte di ricchezza per queste monarchie. Ma le mobilitazioni che abbiamo visto nascere in Barhein, in Oman e che si apprestano probabilmente a scuotere anche la grande Arabia Saudita, hanno mostrato chiaramente come la formula magica “no taxation no representation non funzioni più. Ed è proprio questo il dato più sorprendente – quasi paradossale – delle rivoluzioni del Golfo: società estremamente tradizionali chiedono a gran voce di entrare nella modernità politica. Estranee a qualsiasi forma di società civile – differentemente dal contesto tunisino, egiziano, marocchino o giordano – queste popolazioni sono scese nelle piazza per chiedere la creazione di monarchie costituzionali e una maggiore rappresentatività politica.



Il fatto che le condizioni economiche delle popolazioni non siano particolarmente drammatiche in paesi come l’Arabia Saudita o il Sultanato dell’Oman, non ha costituito un freno allo sviluppo di una protesta contro la corruzione dei governi e la mancanza di diritti civili. Questi regimi potrebbero ovviamente non cadere, forti anche di eserciti mercenari che difficilmente volterebbero le spalle a governi da cui dipende nulla più che il loro salario (differentemente da quel che è successo in Tunisia o in Egitto) e dell’appoggio dei paesi occidentali che temono una nuova crisi petrolifera e la sicurezza dei loro interessi nella regione; tuttavia, quello che sembra ormai di giorno in giorno più evidente è che il modello dello “Stato-rendita” non potrà più sopravvivere in un contesto in cui la società chiede di non voler essere più legata al regime da un rapporto di sudditanza, bensì di rappresentanza.

 

C’è però la seconda dinamica caratterizzante le rivoluzioni del Golfo e che, nei mesi a venire, costituirà probabilmente la sfida più ardua per queste monarchie: la conformazione delle rivolte si sta plasmando sull’asse di opposizione tra sunniti e sciiti, secondo una traiettoria per cui il presupposto iniziale della protesta – la rivendicazione di democrazia e libertà – viene fagocitata dalla preponderanza della tensione interconfessionale. Il caso più eclatante è quello del Barhein, paese in cui la dinastia sunnita di Al Khalifa governa su una popolazione che per circa il 70 percento è di confessione sciita. Ma l’esito ultimo di tutto ciò – quello che maggiormente inquieta il sonno di Ryad e Washington – è in realtà la potenziale confluenza del conflitto all’interno del confronto più annunciato degli ultimi decenni, ovvero quello tra l’Iran e l’Arabia Saudita. Non a caso il gigante saudita, con la benedizione del Consiglio di Cooperazione del Golfo, ha inviato oltre mille soldati in soccorso del regime amico del Barhein per far fronte alle rivolte; ed è chiaro che, attraverso la protesta sempre più marchiata dall’identità confessionale, il vero pericolo che gli Stati del Golfo intravedono e temono è il regime degli Ayatollah.

Teheran ha un esplicito progetto egemonico sul mondo arabo e il vuoto di potere lasciato dalla caduta di Saddam e dalla progressiva perdita di influenza americana sulla regione non hanno fatto che dare impulso alle ambizioni della repubblica islamica. Le ricchezze energetiche del Golfo fanno da sempre gola all’Iran e da corollario alla rivalità storica tra le due parti. Per perseguire il suo obiettivo di influenza sul Golfo, Teheran ha trovato la sua più efficace strategia nel seminare la discordia interconfessionale, fomentando le minoranze sciite e facendo strategicamente presa sulla loro avita frustrazione per la sistematica difficoltà di accesso ai benefici sociali e ai privilegi monopolizzati dalle élites sunnite. In realtà il rapporto di affiliazione tra le minoranze sciite del Golfo e il regime di Teheran è tutt’altro che scontato ma se si guarda all’influenza che l’Iran esercita ormai sull’Iraq l’ambizione espansionistica del regime islamico nel Golfo assume sempre maggiore concretezza.

 

La più grande sfida cui le monarchie tradizionaliste della penisola araba devono far fronte in questo momento non è, dunque, solo la modernizzazione ma anche la messa in atto di politiche di riconciliazione interconfessionale. Questo vorrebbe dire invertire la rotta rispetto a una storica e puntuale discriminazione nei confronti delle minoranze sciite. Il grande dilemma, tuttavia, è capire se l’annuncio di qualche riforma, seppur consistente, riuscirà a placare gli animi e se, soprattutto, concedere spazi di rappresentanza politica alle minoranze sciite non si trasformi in una apertura delle porte del Golfo all’egemonia iraniana.