C’è da chiedersi se si possa veramente parlare di volontà collettiva di un popolo, perché il risultato delle elezioni è la somma di milioni di scelte personali, spesso complicate e provvisorie, fatte da singoli elettori in situazioni e con prospettive diverse.

Tuttavia, alcuni fatti nelle elezioni irlandesi sembrano ineludibili. Il Fianna Fáil ha subito una sonora sconfitta, riducendo i suoi seggi grosso modo a un quarto di quelli che aveva prima delle elezioni. Dal febbraio 1987, a parte un breve periodo tra il 1994 e il 1997, il Fianna Fáil è stato al governo con altri piccoli partiti, compreso il periodo del boom economico conosciuto come quello della Tigre Celtica e il successivo periodo di tracollo economico degli ultimi tre anni.



Adesso è stato punito non solo per aver mal gestito il periodo del boom, ma anche per la cattiva gestione del periodo di crisi, rifiutando un franco e aperto confronto con la popolazione, abbandonandola, invece, in uno stato di confusione senza speranze, con i politici al governo che ripetevano i loro mantra economici di volta in volta risultati sbagliati, sia nelle analisi e previsioni che nelle decisioni prese.



La cosa altrettanto notevole dei risultati elettorali è che, lungi dal virare verso una radicalizzazione, gli irlandesi hanno deciso di sostituire il Fianna Fáil con il Fine Gael, suo oppositore fin dalla guerra civile del 1922/23. In Irlanda si dice che è impossibile spiegare a un forestiero quale sia la differenza tra i due partiti: ci sono differenze, ma molto sottili e più di natura culturale che ideologica.

I risultati elettorali hanno reso possibile al Fine Gael, per la prima volta, di avvicinarsi alla maggioranza nel Dáil, il parlamento Irlandese. Il risultato più probabile delle prossime trattative per il potere è una coalizione tra Fine Gael e Partito Laburista, che pure ha ottenuto un numero di seggi senza precedenti, circa la metà di quelli ottenuti probabilmente dal Fine Gael. Si avrebbe così un governo con una maggioranza dei due terzi dei seggi, una efficace unione di forze solo relativamente disomogenee in vista dell’affronto delle straordinarie difficoltà economiche che il Paese sta attraversando.



Un altro aspetto interessante dei risultati è che, sebbene il numero di candidati radicali e di tendenze sinistrorse sia il più alto mai verificato, è improbabile che costoro abbiano qualche ruolo nel prossimo governo. Nonostante tutta la campagna sia stata all’insegna delle preoccupazioni suscitate dal recente accordo finanziario del governo uscente con il Fondo monetario internazionale e la Banca Centrale Europea, sul quale vi è una diffusa sensazione di essere stati traditi, i risultati sembrano indicare un voto in favore di una rinegoziazione e non di un esplicito rifiuto dell’accordo.

 

È però possibile leggervi anche un sostrato più profondo. Alcuni dei candidati indipendenti di maggior successo e il Sinn Féin, finora uno dei partiti più piccoli ma che ha triplicato i suoi voti, hanno sostenuto la linea della completa rinegoziazione e del rifiuto del debito derivante dal collasso del sistema bancario irlandese. Il manifesto elettorale potrebbe essere ridotto ad una sola frase: “Al rogo gli obbligazionisti!”. Tuttavia, anche se il Sinn Féin e una variopinta collezione di indipendenti saranno un elemento molto attivo della prossima opposizione parlamentare, difficilmente riusciranno a imporre le loro posizioni. Rappresenteranno però una chiara e coerente prospettiva alternativa su cui misurare l’approccio, presumibilmente più conservatore, del prossimo governo.

 

Vi sono già commentatori che si lamentano per la rinuncia dell’elettorato a scelte più radicali, ma ciò è accaduto in tutte le elezioni. Ogni nuovo modello viene analizzato come indicazione di spostamento a sinistra o a destra. La verità è che gli irlandesi, istintivamente, non ricercano alternative ideologiche, ma un’espressione politica dei loro desideri profondi per se stessi e per i loro figli. In questo caso, sembrerebbero aver deciso di dare un’altra possibilità ai moderati, prima di cercare alternative.

 

Sul piano politico, si potrebbe dire che questi risultati sono per molti versi provvisori e potrebbero portare a risultati più, o meno, radicali a seconda di ciò che succederà d’ora in poi. Se il nuovo governo non riuscirà a ribaltare la situazione economica e a sanare le ferite del trauma di questi ultimi tre anni, allora le prossime elezioni, al massimo tra cinque anni, finiranno per cancellare le parti politiche eredi della guerra civile, che hanno dominato la scena fin dagli anni ‘20. L’elevato voto in favore di candidati indipendenti radicali può rappresentare in molti casi non tanto la scelta per un nuovo radicalismo, quanto la speranza che possano dar voce alla frustrazione di un Paese convinto che i suoi politici siano spesso più interessati ad apparire “rispettabili” in Europa che non a rappresentarvi i bisogni e i desideri dei loro concittadini.

La naturale scadenza di questo parlamento coincide con il centenario della Rivolta di Pasqua del 1916, da cui alla fine è nato il moderno Stato irlandese. Il popolo irlandese ha, nel profondo, un forte senso di indipendenza e fiducia in se stesso, messo però alla prova negli ultimi anni dalla crescente sensazione che il rapporto con l’Unione europea abbia creato un malsano senso di dipendenza, imponendo all’economia irlandese condizioni non adeguate alle sue peculiari necessità.

 

Sia il Fine Gael che i laburisti sono favorevoli senza riserve all’Ue e cercheranno di ristabilire un rapporto sano e funzionale tra Irlanda e Unione. Se questo tentativo dovesse fallire, le riserve degli irlandesi aumenterebbero sempre di più e diventerebbe probabile l’emergere di una nuova classe politica che dia voce all’idea che l’Irlanda debba tornare sui suoi passi per affrontare le questioni fondamentali della sua indipendenza e della sua capacità di cavarsela da sola.

 

Sinn Féin, che fino alla fine dello scorso millennio è rimasto distratto dal conflitto in corso nell’Irlanda del Nord, potrebbe giocare un ruolo chiave in una simile evoluzione. “Sinn Féin” significa “noi da soli” e rappresenta le posizioni più irredentiste sulla divisione dell’Irlanda e le relazioni con la Gran Bretagna e il resto del mondo. Il Sinn Féin viene dalla stessa parte della barricata nella guerra civile del Fianna Fáil ma, mentre la fisionomia di quest’ultimo si è diluita nella gestione del potere, il Sinn Féin ha speso gran parte degli ultimi cinquant’anni nel tentativo di realizzare il progetto nazionalista nel nord e, nonostante i limitati risultati ottenuti, la sua credibilità in materia di sovranità nazionale rimane elevata.

 

In anni recenti, esso ha preso posizione contro i trattati di Nizza e Lisbona, entrambi rigettati dagli irlandesi nella prima tornata elettorale e passati solo al secondo tentativo a seguito delle minacce sulle possibili conseguenze di una nuova scelta negativa, descritta come il morso della mano che dava da mangiare. Nonostante questa adesione alle richieste di una classe politica screditata, rimangono forti sospetti sul ruolo dell’Ue nei confronti dell’Irlanda, aumentata dalla sensazione che i “partner” europei si siano recentemente preparati a mollare gli irlandesi.

 

Il risultato di queste elezioni, quindi, non rappresenta tanto una risposta quanto una nuova serie di domande, il cui significato può essere riassunto in: “Stiamo a vedere cosa succede adesso”.