L’avvio dell’operazione “Odissea all’alba” rappresenta per Parigi l’occasione per rispolverare la propria antica grandeur, cavalcando l’entusiasmo generato dalla “primavera araba”. Sebbene tale terminologia risulti inflazionata tra i media occidentali, e scarsamente pregnante per definire l’attuale situazione libica, Sarkozy si è guadagnato un ruolo da protagonista nella conduzione delle operazioni militari a Tripoli. Il preoccupante calo dei consensi in patria, di cui la sconfitta nelle recenti elezioni amministrative è solo l’ultima dimostrazione, è una delle motivazioni che hanno spinto il leader dell’Ump francese all’intervento in Libia.
Così, mentre Washington ha lasciato agli europei l’onere di risolvere la matassa libica, nel Vecchio Continente si scatena una corsa fra la capitale francese e Londra a chi trarrà i maggiori benefici dalle operazioni militari in atto in questi giorni. Il nuovo ministro degli Esteri francese Juppé non ha perso tempo nel ridare una forma “gaullista” alla politica estera francese.
Per comprendere la decisione di intervenire in Libia occorre tener conto di alcune considerazioni inconfutabili: la consapevolezza al Quai d’Orsay che in Tunisia era stata persa un’occasione e si era rimediata una figuraccia (tra mancato sostegno ai rivoltosi e viaggi di piacere dell’ex ministro degli Esteri Michele Alliot-Marie finanziati da Ben Ali); che l’Unione per il Mediterraneo, fortemente voluta proprio da Parigi, si é dimostrata un fallimento; che la Libia rappresenta l’ultima occasione per difendere gli interessi francesi in Nord Africa e in particolare nella confinante Algeria; che proprio per questi motivi la Nato non deve essere coinvolta nella questione libica, lasciando a Parigi il controllo delle operazioni (scalzando i principali concorrenti come Gran Bretagna e Italia).
Ma la mossa francese si inquadra in uno scenario più ampio e articolato, proiettato più a Est, nel Golfo Persico. Dall’avvio del proprio mandato, Sarkozy ha incoraggiato la conclusione di accordi economici con i Paesi del Gulf Cooperation Council (Gcc) – un’organizzazione regionale che ha nell’Arabia Saudita il proprio pivot, seguita da Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Oman e Kuwait. L’organizzazione, che ha rivestito fino a oggi una rilevanza prevalentemente economica, rappresenta in realtà un baluardo essenziale per l’Occidente contro la minaccia iraniana. La stessa Nato, tramite l’Istanbul Cooperation Initiative (Ici) lanciata nel 2004 velatamente in funzione anti-iraniana, ha stretto legami con i paesi a maggioranza sunnita del Golfo tramite accordi di cooperazione militare e addestramento del personale delle forze armate locali.
Ma le recenti evoluzioni dello scacchiere mediorientale hanno evidenziato un improvviso scostamento dell’Arabia Saudita dalla storica alleanza con gli Stati Uniti. Le recenti crisi in Libano, dove non piacque agli Stati Uniti il dialogo ricercato da re Abdullah con la malfidata Siria per stabilizzare il Paese dopo la caduta del Presidente Hariri, e in Egitto, dove Ryad si propose come nuovo finanziatore del regime di Mubarak al posto di Washington, nel caso fosse rimasto al potere, hanno fatto sì che Obama non potesse più considerare l’ottantaseienne re Abdullah l’alleato di riferimento nella regione.
Il gelo tra Stati Uniti e Arabia Saudita ha quindi significato un’enorme opportunità per Sarkozy: dopo l’apertura di una base militare negli Emirati Arabi Uniti, meno di un mese fa la trattativa tra la Dessault Aviation (a partecipazione pubblica francese e tra i leader europei nell’industria dell’aviazione militare) e Abu Dhabi ha avuto una forte accelerazione. In ballo c’è un accordo per l’adeguamento dei software e dei sistemi d’arma della flotta di Mirage degli Emirati. A margine dell’intesa dovrebbe anche essere inclusa la transazione che porterebbe alla vendita di nuovi aerei Rafale, mentre alcuni giorni fa, Francia e Arabia Saudita hanno sottoscritto un accordo di cooperazione per lo sviluppo del nucleare civile nei rispettivi Paesi.
Gli accordi economici tra Francia e Paesi del Golfo si legano profondamente con i timori di Ryad per la domanda di democrazia espressa dalle piazze arabe, destabilizzante per l’equilibrio socio-politico nella regione. L’intervento militare in Bahrein, dove le rivolte sciite sono probabilmente appoggiate da Teheran, da parte delle truppe saudite accompagnate da quelle di altri Paesi del Gcc e non solo (secondo al Jazeera, anche Siria e Pakistan avrebbero inviato propri uomini nel Paese), testimonia come il timore di un’egemonia sciita nel Golfo sia reale per l’Arabia Saudita, già preoccupata dalla possibilità che l’influenza iraniana si estenda in Iraq.
Allargare il blocco sunnita è diventato quindi indispensabile e in Cirenaica gli interlocutori per realizzare tale progetto non mancano. La Francia si pone quindi come attore privilegiato per difendere gli interessi sunniti, sebbene tali Stati abbiano dimostrato di non essere immuni all’ondata rivoluzionaria del popolo arabo: la richiesta di diritti democratici e di lavoro ha interessato anche i paesi arabi che oggi si pongono come paladini del popolo libico (Qatar e Arabia Saudita su tutti).
Il quadro che si va delineando è dunque poco rassicurante e la competizione settaria tra Iran e Arabia Saudita sta trascinando nella competizione anche l’Occidente. Di certo restare immobili mentre il futuro degli approvvigionamento del gas per l’Europa e altri interessi economici sono messi a rischio era difficilmente immaginabile. Ma quando gli si chiederà per quale motivo non si sia creata una coalizione internazionale anche per difendere i diritti degli yemeniti, calpestati dal dittatore Saleh, la Francia, e con essa l’Occidente, si dimostrerà ancora una volta estremamente vulnerabile nella regione mediorientale.
(Luca Gambardella, analista di Equilibri.net)