Nel momento in cui scrivo, l’argomento principe nei media americani è l’invasione della Libia, seguita da vicino dal dopo terremoto in Giappone. Dato che un terremoto simile a quello giapponese potrebbe succedere sulle nostre coste, sia a ovest che a est, molti americani (quantomeno quelli che vivono sulle due coste) stanno seguendo con preoccupazione ciò che avviene in Giappone. Almeno per il momento, quindi, la crisi libica non ha ricevuto tutta quella attenzione che riscuoterebbe senza dubbio se l’Amministrazione non spiegasse in modo del tutto soddisfacente le ragioni del coinvolgimento militare degli Stati Uniti su un nuovo fronte.
Per il momento, ecco le reazioni più interessanti all’intervento. In un commento per la Cnn, Richard N. Haass (Presidente del Council on Foreign Relations) scrive: “Gli Stati Uniti si sono imbarcati nella loro terza guerra per scelta in meno di un decennio. Come la guerra in Iraq nel 2003 e in Afghanistan dopo il 2009, questa scelta è stata malaccorta. Si può definire l’intervento in Libia come una scelta non forzata per due ragioni. Primo, gli interessi Usa coinvolti sono decisamente non vitali. La Libia rappresenta solo il 2% della produzione mondiale di petrolio. Le dimensioni della crisi umanitaria non sono così particolari e, in realtà, questo non è un intervento umanitario in senso stretto. È la decisione di partecipare alla guerra civile libica. Vi è una seconda ragione: gli Stati Uniti e il mondo hanno altre opzioni al di là dell’azione militare. Le guerre civili, senza significativi interventi dall’esterno, tendono a spegnersi e a terminare più rapidamente. Una serie di strumenti, da sanzioni economiche ad azioni segrete, possono indebolire il regime, sostenere l’opposizione o entrambe le cose”.
Secondo Haass, questo intervento è imprudente. “In quasi tutti gli scenari possibili, che Gheddafi sia rimosso dal potere, o che si ritiri e cessi le attività belliche come richiesto dalla risoluzione dell’Onu, oppure che continui a combattere con successo, sarà necessario qualcosa di più che l’attuale sforzo militare internazionale, che già si estende oltre la semplice imposizione di una no-fly zone. Chi manterrà l’ordine? E chi potrà impedire la continuazione della guerra civile? La probabile risposta a questa e ad altre domande connesse è: forze militari straniere. Ma forze da dove e per quanto tempo, con che missione e quali costi? Non pare che niente di tutto questo sia stato adeguatamente soppesato”.
Vero è che l’intervento in Libia è multilaterale, osserva Haass, ma un appoggio multilaterale in sé e per sé non è una ragione per fare qualcosa. Vi è chi difende l’azione militare perché giustificata da ragioni morali, ma Haass osserva ancora che questo esige che in Libia si stabilisca qualcosa di più accettabile moralmente, con costi commisurati al risultato. In effetti, non vi sono molte ragioni per essere fiduciosi che l’opposizione possa costituire una positiva alternativa nazionale al regime. “Una Libia in guerra con se stessa per anni, o che accoglie gruppi come Al Qaeda, o è troppo debole per contrastarli, non è qualcosa per cui vale la pena di combattere”. Haass conclude: “L’intervento in Libia pone soprattutto in discussione il ruolo degli Stati Uniti nel mondo. Gli Stati Uniti non possono e non dovrebbero intervenire in ogni conflitto interno in cui si manifesta il male”.
Se questo giudizio rappresenta più o meno i Democratici progressisti delusi dalle politiche di Obama, cosa succede tra i Repubblicani? Dopo avergli chiesto per settimane di essere più deciso nella questione libica, nessuno dei candidati del Gop (i Repubblicani) per il 2012 ha espresso appoggio per il Presidente Obama. Invece, hanno criticato aspramente il comandante in capo durante il weekend o hanno evitato di prendere posizione.
L’ex speaker della Camera Newt Gingrich, per esempio, ha dichiarato a Politico che: “Iran e Corea del Nord sono minacce molto più grandi. [Il dittatore dello Zimbabwe Robert] Mugabe ha ammazzato molta più gente, la dittatura sudanese ha ammazzato più gente, c’è una quantità di dittatori che compie nefandezze”. L’ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum ha detto che Obama ha esitato talmente che gli Stati Uniti “possono aver perso la loro finestra di opportunità”. Molti non hanno detto nulla, almeno in pubblico, dato che l’attacco è partito sabato. Quando Politico ha condotto un’indagine tra i principali candidati “i rappresentanti dell’ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney, dell’ex sindaco di New York City, Rudy Giuliani, degli ex governatori del Minnesota, Tim Pawlenty, dell’Indiana, Mitch Daniels, dall’Arkansas, Mike Huckabee e del deputato del Minnesota, Michele Bachmann, non hanno risposto alla richiesta di commenti”.
Politico osserva: “Può darsi che questi sette siano tranquillamente schierati dietro il comandante in capo in un periodo di guerra, ma una spiegazione più probabile è che questi possibili candidati stiano aspettando di vedere gli sviluppi di questa fluida situazione e di sentire cosa dicono per primi i principali avversari. Questo silenzio è un altro promemoria sulla carenza di esperienza in politica estera tra i maggiori candidati Repubblicani”.
È stato fatto notare (per lo sgomento di molti conservatori tradizionali) che i Neoconservatori sembrano recuperare di nuovo ascendente, visto che quasi tutti i candidati del partito alla presidenza hanno abbracciato un atteggiamento da “falco” nella politica estera e nella difesa.
Nel frattempo, il presidente del Venezuela Hugo Chavez ha denunciato l’intervento militare in Libia come un complotto degli Usa per prendersi il suo petrolio e ha avvertito che ogni tentativo di fare la stessa cosa in Venezuela troverebbe la violenta reazione armata dei patrioti venezuelani. Il Presidente Obama, che sta visitando l’America Latina per la prima volta da presidente, risponderà probabilmente oggi in un importante discorso alla regione da Santiago del Cile. Ma questo lo commenteremo un’altra volta.