«Gheddafi sa che i missili occidentali non possono scalfire il suo potere, anzi sfrutta i bombardamenti alleati a suo favore come strumento di una continua propaganda». A rivelarlo è Fausto Biloslavo, inviato da Tripoli per il Giornale. Ilsussidiario.net lo ha raggiunto telefonicamente durante un sopralluogo nella capitale libica, per raccontare in presa diretta che cosa sta avvenendo nel quarto giorno dall’inizio dei raid aerei. Per Biloslavo, «l’intervento dell’Occidente certamente non porterà a una svolta, e Gheddafi potrà essere cacciato solo a condizione di compiere un bagno di sangue. I sostenitori del Colonnello sono molto convinti e i ribelli non sono stati in grado di esprimere un’alternativa credibile, anche perché al loro interno si nascondono delle piccole cellule terroristiche».



Biloslavo, che clima si respira a Tripoli in queste ore?

Quello che si percepisce senza alcun dubbio è che Tripoli è in grado di resistere ancora a lungo. La capitale è fermamente in mano ai sostenitori di Gheddafi, anche se ci sono diversi oppositori che però non osano farsi sentire.

C’è molta paura per i bombardamenti?



No, non si respira affatto un clima di paura tra la popolazione. Di notte c’è la guerra, e di giorno tutto ritorna a un’apparente calma e normalità.

La maggioranza dei libici è a favore o contro Gheddafi?

E’ difficile parlare di maggioranze, almeno in questa fase. Quello che è certo è che molta gente sta con Gheddafi, sono suoi sostenitori convinti, e non si tratta soltanto di propaganda. Quando scendono a fare gli scudi umani a Bab al Azizya, la cittadella fortificata del Colonnello, nessuno li costringe a farlo né tantomeno punta delle baionette alle loro spalle.



 

E allora perché lo fanno?

 

Credono nel Colonnello e nel suo regime, che è durato per oltre 40 anni. A chi chiede loro perché, rispondono che Gheddafi rappresenta la rivoluzione e lo chiamano «il Fratello leader», o «il Fratello numero uno». Sostengono che prima delle rivolte la Libia era sicura, si stava bene, c’era moltissimo petrolio, e che adesso invece c’è il caos. Inoltre c’è molto timore per quello che può accadere dopo un’eventuale caduta del regime.

 

Che cosa ne pensa dell’intervento occidentale in Libia e in particolare dell’atteggiamento della Francia?

 

E’ un intervento pieno di contraddizioni. Fino a pochi giorni fa avevamo venduto la pelle dell’orso prima di averlo catturato: pensavamo cioè che Gheddafi fosse spacciato, e invece non era affatto così. Poi le forze occidentali si sono mobilitate all’ultimo momento, quando il regime stava per conquistare Bengasi, la roccaforte dei ribelli. Non credo comunque che questo intervento riuscirà a portare a risultati significativi, di certo non condurrà a una svolta nella crisi libica.

 

Perché ne è così sicuro?

 

Gheddafi se la ride dei missili, anzi li sfrutta per la sua propaganda. E finora non abbiamo assistito a segnali interni che facciano pensare che il Colonnello farà una fine paragonabile a quella di Ceausescu. La prospettiva più verosimile è che la situazione si cristallizzi, con l’est che resterà in mano ai ribelli e l’ovest ai governativi. Ma di certo Gheddafi non sarà esautorato, almeno per il momento.

 

Qual è la percezione della popolazione libica nei confronti dei raid occidentali?

Sono avvertiti come un’«ingerenza esterna», è questo il termine che ho sentito usare a Tripoli negli ultimi giorni. Ce l’hanno soprattutto con i francesi di Sarkozy e con gli americani di Obama. Un po’ meno con gli italiani, nei nostri confronti c’è soprattutto stupore: non si aspettavano che partecipassimo a questo attacco. E’ come se non avessero ancora elaborato quello che è successo.

 

C’è il rischio che l’intervento occidentale trasformi la Libia in un altro Afghanistan?

 

Il rischio non è tanto questo, quanto piuttosto il fatto che il regime non accetta la divisione in due della Libia. Quindi vedremo scorrere ancora molto sangue nel Paese. Un cambiamento è inevitabile, lo ha detto lo stesso figlio di Gheddafi, Saif al-Islam, ma di sicuro non avverrà in tempi brevi.

 

I ribelli sono in grado di esprimere una figura in grado di porsi come alternativa rispetto a Gheddafi?

 

No, i ribelli sono ancora una forza molto variegata. Ne fanno parte delle realtà molto eterogenee, da quella che in Occidente chiameremmo «società civile» ai Fratelli musulmani, i militari dell’esercito che hanno disertato, gli ex ministri di Gheddafi e delle piccole cellule terroristiche. Non dico con questo che ci sia un pericolo particolarmente grande che Al Qaeda prenda il potere nel Paese, quello che è certo però è che in mezzo ai ribelli ci sono anche i terroristi. Si tratta quindi di un’opposizione arcobaleno, all’interno della quale nessun elemento assume un particolare rilievo rispetto agli altri.

 

Quali sono i principali problemi per i giornalisti occidentali presenti a Tripoli?

 

La situazione è molto difficile, soprattutto dall’inizio dei bombardamenti non è più consigliabile girare da soli per la città. Prima cercavo di essere il più autonomo possibile nei miei spostamenti, ma adesso non è assolutamente più salutare e quindi siamo vincolati alle scelte del ministero dell’Informazione e alla sua volontà di farci vedere o meno quello che accade. E’ molto difficile quindi renderci conto per esempio di quali sono gli effetti reali dei bombardamenti sulla città.

 

Chi fa più disinformazione, Gheddafi o i ribelli?

 

Entrambi la fanno a pieno ritmo, continuano a circolare notizie non controllabili, tutto dicono tutto e il contrario di tutto. Quella che si sta combattendo in Libia è una guerra vera, su tre fronti: gli attacchi aerei degli alleati, il conflitto civile sul terreno e la guerra della disinformazione che cerca di trasformare le caratteristiche di quello che sta avvenendo.

 

(Pietro Vernizzi)


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