Mano a mano che diventano evidenti da un lato la capacità di resistenza di Gheddafi,  e dall’altro la confusione e l’assenza di obiettivi chiari e condivisi che regnano nel campo delle potenze coalizzate contro di lui, si  rafforza l’ipotesi di far tacere le armi lasciando invece campo aperto alla diplomazia.  Ieri Berlusconi ha lanciato un appello che suona più o meno così: Gheddafi ordini il cessate il fuoco in modo che si possa così aprire una fase di mediazione diplomatica. Assumendo questa posizione Berlusconi ha fatto compiere al nostro Paese un primo passo sulla strada giusta, impresa non facile tenuto conto dell’entità delle pressioni in senso contrario.
Dobbiamo essergliene grati, ma pure augurarci che riesca inoltre a fare l’indispensabile passo successivo: l’appello a che non solo Gheddafi ma anche tutte le altre parti in causa depongano le armi, a partire dalla Francia per arrivare fino agli insorti della Cirenaica.  Soltanto un generale cessate il fuoco (o meglio un armistizio generale, per dirla con un’espressione italiana e non con un calco dall’inglese) può aprire la via alla ricerca di soluzioni diplomatiche.  Non è facile dire a uno “se smetti di sparare trattiamo” senza garantirgli che nessuno continui a sparare contro di lui.
Ciò detto, sulla sostanza della questione non avrei molto da aggiungere a quando scrissi su ilsussidiario già lo scorso 7 marzo, prima cioè che la Francia desse il via agli attacchi aerei sul territorio libico senza nemmeno attendere che scendesse in campo la coalizione chiamata (sic) “dei volonterosi”. L’intervento armato che allora si paventava è avvenuto, anche se  ad opera della Francia invece che degli Stati Uniti; e si sono puntualmente attuate tutte le sue prevedibili conseguenze, compresa la morte e il ferimento di civili indifesi.



Il vuoto d’iniziativa dell’Italia allo scoppio della  crisi e nelle sue primi fasi è stato riempito da altri nel peggiore dei modi, ma ora sembra che stiamo riguadagnando il tempo perduto, e non si può che compiacersene. Frattanto vale la pena di tentare un’analisi delle debolezze profonde che la gestione della crisi libica ha fatto emergere: delle debolezze l’urgenza di porre rimedio alle quali va anche oltre tale crisi, quale che ne sarà l’esito finale. Secondo un vecchio proverbio inglese, diffusosi nel secolo scorso al tempo delle guerre mondiali, “quando scoppia una guerra la prima vittima è la verità”.
La vicenda della crisi innescata dalla rivolta della Cirenaica contro il regime di Gheddafi dimostra che purtroppo la situazione oggi è ancora peggiore: più gravi ancora della manipolazione, su cui ci soffermeremo più avanti, sono gli effetti dell’affermarsi ormai diffuso della tipica incapacità di una certa cultura moderna a vedere la realtà cogliendola in tutti i suoi fattori. A causa di essa si giudica e si prendono decisioni, ahimè anche gravide di importanti conseguenze, tenendo eccessivamente se non esclusivamente conto non dell’insieme bensì di uno o più particolari che, per essere clamorosi, non diventano solo per questo decisivi. Che non bastasse un’insurrezione improvvisata a Bengasi per far cadere il regime di Gheddafi era evidente a chiunque considerasse con la dovuta attenzione tutte gli elementi in gioco.
Era evidente a tanti di noi, che non siamo nel proverbiale Palazzo. Si resta di stucco nel vedere come non se ne rendessero conto all’Eliseo, alla Casa Bianca e così via con tutti gli strumenti di informazione e di analisi di cui dispongono. Se ciò è accaduto, e purtroppo potrà ancora accadere, è a causa della debolezza culturale di cui si diceva, che si rivela più forte della forza di tutti i “think tanks”, di tutti i servizi segreti, di tutti i super-cacciabombardieri e di tutte le portaerei. Non si guarda più alla realtà bensì a una sua rappresentazione distorta della quale l’informazione televisiva planetaria è il megafono tanto potente quanto catastrofico.



Siamo di fronte a un’industria dell’informazione televisiva che vive sulla vendita della paura e del clamore senza alcun adeguato lavoro di verifica dell’attendibilità e del valore relativo delle fonti. Tale industria, la più grande “multinazionale” (nel senso peggiorativo del termine) del nostro tempo, è ormai divenuta un cavallo impazzito che non racconta l’attualità ma la calpesta.
Siccome non c’è altra preoccupazione se non quella di dire e di mostrare per primi quello che poi diranno e mostreranno tutti gli altri, l’informazione diventa un’immensa girandola planetaria che frulla ogni cosa dando ad ogni cosa lo stesso valore: alle notizie come alle semplici voci, alle tesi degli esperti come alle parole dei passanti, muovendosi però sempre in sostanza dentro il perimetro dei luoghi comuni del momento: di lì non si esce. Facciamo concludendo solo un esempio relativamente piccolo: quando il presidente Usa era il repubblicano George Bush il suo attacco all’Iraq diede la stura a una valanga planetaria di manifestazioni pacifiste all’insegna della bandiera arcobaleno.
Adesso che il presidente Usa è il democratico Obama, il quale gode ipso facto della benevolenza dell’establishment “progressista” ovunque nel mondo, non c’è l’ombra di una manifestazione e le bandiere arcobaleno restano nei cassetti.  Possibile che questo fatto non trovi né eco né analisi su nemmeno uno dei grandi palcoscenici mediatici del momento? Possibile che ciò non stuzzichi la curiosità di nessun autorevole commentatore?



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