Qualche giorno fa a Verona – nell’auditorium del Palazzo della Gran Guardia, il “salotto buono” della città veneta – si è parlato di Africa. E lo si è fatto a partire da una mostra sulla figura del grande missionario san Daniele Comboni, ideata e realizzata dalla veronese associazione Rivela e allestita lo scorso anno anche al Meeting di Rimini. A C’è del nuovo in Africa. Il continente, Comboni e noi – questo il titolo del convegno – erano presenti, fra le varie autorità, anche il vescovo di Verona mons. Giuseppe Zenti e il generale dei missionari comboniani padre Enrique Sanchez Gonzalez. È stata una bella occasione per una presa di coscienza a riguardo dei cambiamenti epocali che prima o poi l’Occidente dovrà decidersi ad affrontare sul serio: le migrazioni di popoli dal sud del mondo, infatti, sono sempre più di proporzioni bibliche e appare chiaro a tutti che non potranno essere risolte con una semplice politica di accoglienza ad oltranza.



Una delle carte che, in un prossimo futuro, potremmo giocarci si chiama proprio Daniele Comboni (1831-1881). La sua figura è ancora poco conosciuta, nonostante la canonizzazione avvenuta nel 2003 per opera di Giovanni Paolo II. Eppure lui – bresciano, ma veronese di adozione, missionario, fondatore dei Comboniani e infine vescovo e vicario apostolico dell’Africa Centrale – è stato un “tipo eccezionale”, anche da un punto di vista semplicemente umano; pare uno dei protagonisti di quei romanzi d’appendice tanto di moda nell’Ottocento: riusciva a prendere appunti per i suoi discorsi anche a dorso di un dromedario, in viaggi che potevano durare anche 18 ore sotto un sole a 50 gradi, ed è stato il primo ad esplorare i territori del Sudan del sud; da semplice sacerdote veronese ha incontrato figure come Francesco Giuseppe, Napoleone III e Pio IX; era presente anche all’inaugurazione del canale di Suez, avvenuta nel 1869. Ma ancora: senza di lui non sarebbe esistito nemmeno Salgari, visto che lo scrittore veronese si è ispirato ai racconti dei missionari comboniani per le sue prime opere, quelle sull’Africa nera; e poi, senza Comboni le sorgenti del Nilo le avrebbero trovate molto più tardi, perché gli esploratori inglesi poterono scoprirle solo grazie alle conoscenze dei missionari comboniani. 



Ma la figura di Comboni ha da dire soprattutto “due cosette” all’Occidente spaurito di oggi: il problema dell’Africa (e quindi delle migrazioni) lo si risolve con l’Africa e l’Africa lo può risolvere solo attraverso una cosa: Cristo. Cristo, la cultura e, di conseguenza, la civiltà che ne nasce. Una cultura che non cancella quella africana, ma, anzi, la valorizza. Una civiltà che sostiene il valore assoluto della persona, proprio perché la concepisce legata direttamente al Creatore. A guardare bene, anche per la nostra Europa è accaduto così: il cristianesimo ha, prima, mitigato gli aspetti più disumani della società romana, ed ha portato, poi, alla piena civilizzazione delle popolazioni barbariche provenienti dal nord.



Fu proprio sulla tomba di san Pietro, in  Vaticano, che nel 1854 Comboni ebbe l’ispirazione per il suo Piano per la rigenerazione dell’Africa: in sintesi, il Piano prevedeva di stabilire dei punti di contatto lungo la costa africana, dove i missionari europei e quelli africani si sarebbero potuti incontrare e sopravvivere. I primi, in questi centri, sarebbero stati incaricati della formazione dei secondi. Così, con il tempo, gli stessi africani avrebbero fondato delle missioni all’interno del continente. “Salvare l’Africa con l’Africa”, questa era la “politica” del Comboni: per questo ha pianificato, per primo nella storia, la fondazione in Africa di opere educative per ragazzi e ragazze: licei, scuole di arti e mestieri, seminari e, addirittura, università. Per formare la base di una futura società civile africana. Il Piano venne approvato da Pio IX e “funzionò”; ancora oggi viene portato avanti dai missionari comboniani.

Se un giudizio è emerso dal convegno veronese, ebbene, è proprio questo: per salvare l’Africa non servono le politiche a base di preservativo e aiuti umanitari; l’Africa si salva con l’educazione. E la fede. Come l’Italia. Lo ha potuto testimoniare a Verona anche Rose Busingye, “vecchia conoscenza” del Meeting di Rimini, ugandese, infermiera professionale che si  prende cura di qualcosa come 2mila malati di Aids e 2500 orfani tramite la Meeting Point Association di Kampala, una realtà che ha fondato nel 1992 e che tuttora dirige.

Anche lei è “figlia” del grande santo missionario veronese per essere stata educata da ragazza proprio da un comboniano, padre Pietro Tiboni. «Se mi si chiede: “Che cos’è la salvezza per l’Africa?”. Io rispondo: la fede! Per me è andata così: ho iniziato ad interessarmi alla realtà che mi circondava quando ho scoperto che il mio “niente” era stato salvato. L’Africa si salva salvando la persona e la persona si salva attraverso l’appartenenza a Cristo, perché la fede mostra un modo nuovo di guardare le cose», ha affermato con forza.

Grazie al sostegno della Fondazione Avsi – una Ong che coopera allo sviluppo di 37 Paesi nel mondo – e ad un finanziamento da parte del ministero italiano per gli Affari Esteri, il Meeting Point International ha fondato a Kampala il Centro permanente per l’Educazione, una struttura educativa di eccellenza che finora ha formato 18mila persone, tra insegnanti, educatori e operatori sociali.  Le altre attività vanno dall’assistenza medica e psicologica per i malati di Aids, alle lezioni scolastiche, al microcredito, alle attività ricreative: i canti, il teatro e la danza vengono proposti come “introduzione alla bellezza e alla vera conoscenza delle cose”. Attraverso tutte le attività, l’intenzione è, appunto, quella di Comboni: generare una responsabilità. «Vedo che molti nostri ospiti – ha raccontato ancora Rose –, prima attenti solo a ricevere, ora “mi spiano” e vogliono imitare il mio “stile di vita”. Ad esempio, quando c’è stato lo tsunami in Asia, nel 2004, alcune delle nostre donne hanno spaccato pietre per giorni per riuscire ad inviare qualche soldo: “Noi ci siamo sentite volute bene da te e adesso vogliamo bene a quelli là!”, mi avevano detto. Accadono cose piuttosto inconsuete per la mentalità africana: un gruppo di 23 ragazzi appena battezzati, come volontariato, sta andando ogni giorno a cantare in una cava di pietra per alleviare la fatica delle lavoratrici; hanno un vasto repertorio di canti alpini (ride divertita, ndr) che io stessa ho insegnato loro dopo averli imparati negli incontri di Cl: loro, però, si sono perfezionati da soli, andando a cercare i video su internet. E sono diventati bravissimi! È proprio vero: il cuore che ha incontrato Cristo esplode in un canto di gioia».

(Ermanno Benetti)