È stata forse un po’ precoce e sfacciatamente imprudente la retorica del regime siriano che, nel corso degli ultimi due mesi, mentre vedeva esplodere le piazze e implodere i regimi dei paesi arabi limitrofi, lodava il suo modello statuale e il successo del suo governo, sentendosi ormai al sicuro dall’effetto contagio della primavera araba. In realtà solo una mancata sincronia con le altre rivolte ha potuto dare per poco tempo al regime l’illusione che la straordinaria ondata di contestazioni regionali non riguardasse anche il suo governo. Ad osservare il quadro in prospettiva strutturale, infatti, il regime di Bashar al-Assad, al pari di quello di Mubarak, di Ben Ali, di Gheddafi e di tutti gli altri, non è privo di quel marchio di illegittimità del potere, che – non dimentichiamo – è il fattore fondamentale per cui le rivolte in tutto il mondo arabo si sono potute innescare.
Eletto nel luglio 2000 con un referendum confermativo, il rais siriano ha ereditato il potere che suo padre Hafez aveva assunto nel 1962 con un colpo di Stato militare. Anche qui la storia è simile a quella degli altri regimi arabi, con cui peraltro il governo Assad condivide una sorprendente longevità del mandato; quest’ultima per di più è stata assicurata da quel tipico rapporto clientelare tra la testa del potere e i ceti detentori del monopolio economico e militare che ha caratterizzato tutti gli stati arabi degli ultimi 50-60 anni.
Da una parte è sicuramente vero che il presidente siriano è stato in grado di conquistarsi negli ultimi anni una certa popolarità tra alcune frange della popolazione – come hanno dimostrato d’altra parte le sporadiche manifestazioni pro-governative che negli ultimi giorni hanno fatto da contraltare ai gruppi dei rivoltosi. Eppure il regime sapeva bene che il malessere di natura squisitamente sociale ed economica – e che, non dimentichiamo, ha rappresentato la miccia esplosiva di tutte le recenti rivolte arabe – non era affatto estraneo al contesto siriano. Il fattore strutturante di quest’ondata rivoluzionaria è stato infatti il mix esplosivo fatto di un tasso di disoccupazione crescente e sempre più diffuso nella fascia della popolazione tra i 20 e i 30 anni, una consistente crescita demografica di fronte a cui i vari governi si sono ritrovati drammaticamente impreparati ed un’imbarazzante carenza di politiche redistributive dovute per di più alla corruzione fagocitante e al clientelismo dei ceti dirigenti dei vari regimi.
In Siria tutto ciò è stato catalizzato dai rapidissimi mutamenti climatici che hanno colpito nell’ultimo decennio il settore agricolo, fino agli anni ottanta rappresentante il 25 per cento dell’economia del paese, e alla progressiva diminuzione delle rendite petrolifere. Il governo di Assad, a partire soprattutto dal 2005, ha incentivato con discreto successo una certa liberalizzazione economica. L’apertura del mercato tuttavia non è andata di pari passo con un arretramento della presenza dello Stato nell’economia e del monopolio economico delle élites affiliate al regime. E questo ha fatto sì che il quadro dei clivages sociali restasse sostanzialmente immutato, secondo una declinazione che ci appare molto simile a quella dispiegatasi nell’Egitto di Mubarak o nella Tunisia di Ben Ali.
Possiamo dunque ipotizzare che il regime di Bashar al-Assad segua la sorte dei due solitari rais che hanno lasciato per primi la poltrona del potere travolti da quest’ondata rivoluzionaria? Se è certo difficile prevedere quali possano essere gli esiti di una realtà in costante mutamento e piena di colpi di scena, ci sono almeno due caratteristiche del regime siriano che fanno da deterrente ad un crollo, per lo meno imminente, di Assad. La prima risiede nel fatto che il reclutamento delle élites del potere sia stato declinato, fin dal 1962, sul criterio confessionale – per appartenenza, cioè, alla setta religiosa della famiglia Assad, quella degli Alawiti, che rappresenta non più del 10 per cento della popolazione. Questo riguarda in particolare le forze militari. Se pensiamo al contesto egiziano o tunisino è importante prender coscienza del fatto che, se i rispettivi eserciti non avessero preso in braccio le folle voltando le spalle ai regimi, difficilmente avremmo visto sgretolarsi da un giorno all’altro le immagini di due forme di potere così longeve e forti. Ma in entrambi i casi i militari avevano tutto da guadagnare: appoggiare la popolazione in rivolta era infatti l’unico mezzo per assicurarsi una continuità di potere e privilegi di cui godevano da mezzo secolo. Ne caso siriano la situazione appare invece perfettamente capovolta. Le élites militari alawite sanno bene che, in un contesto di frammentazione confessionale e sociale come è quello della Siria, se il governo dovesse cadere, la loro setta religiosa sarebbe duramente ostracizzata da qualsiasi futuro governo e loro perderebbero da un giorno all’altro le enormi fortune che il governo attuale ha loro permesso di accumulare.
C’è poi un secondo fattore che rende difficile un imminente rovesciamento di Assad. Un cambio di regime in Siria farebbe infatti scuotere tutto il quadro regionale. La prima ad inquietarsi è la Turchia. Tra i due paesi è stato instaurato un equilibrio difficile ma inevitabile, reso possibile dalla condivisione di un certo realismo politico, che potrebbe non sopravvivere ad un rinnovamento politico. Il Libano, che pure da anni mal sopporta l’ingerenza siriana, preferisce in questo momento il carattere moderato di Assad all’incognita di un futuro governo che potrebbe non escludere la via della radicalizzazione islamica. C’è ancora l’Arabia Saudita, che condivide con il regime siriano una rivalità colmata da interessi reciproci e c’è infine Israele per la quale un eventuale governo siriano più radicale potrebbe far facilmente riaccendere la disputa sulle contese alture del Golan – questione sempre apparentemente calda negli attacchi diplomatici, ma in realtà raffreddata dai tempi della guerra del Kippur (1973).
La rottura di questo fragile status quo inquieta i governi regionali quanto quelli occidentali, per i quali gli interessi di Israele hanno un peso storicamente rilevante. Ed è proprio questo, più che la mancanza del petrolio, come è emerso dai commenti del ministro Tremonti, che rende un intervento militare in Siria da parte delle forze occidentali del tutto irrealistico.