In una recente intervista televisiva il ministro Tremonti, interpellato sull’emergenza emigrazione, ha dichiarato che la strada maestra è quella di aiutare gli immigrati a casa loro. Parole assolutamente condivisibili e che tracciano, con sintetica efficacia, le linee guida della cooperazione allo sviluppo. Lo sviluppo, infatti, ha come elementi fondanti l’educazione, l’istruzione, il lavoro e quindi il reddito per condizioni di vita degne di un essere umano.
Da tempo è risaputo che solo in Libia sono presenti un milione di africani – è una stima per difetto – che premono verso il nord. Una massa di diseredati di queste dimensioni non si ferma certo con i pattugliamenti, né con le mitragliatrici, ma con educazione e lavoro. In questa direzione si deve muovere il “Sistema Paese” fatto di imprese, imprese sociali e sistema universitario che, nella specifica distinzione dei ruoli, possono dare un contributo importante. Insomma, è necessaria una cooperazione allo sviluppo del terzo millennio che si accorga che il muro di Berlino è caduto da un pezzo e che la globalizzazione può essere un’opportunità, se adeguatamente governata.
Il principio di questo governo non può non partire da un sano realismo che, aiutato dal crollo delle ideologie, ci aiuti a comprendere il punto essenziale: partire dal desiderio di felicità di ogni essere umano, da quel desiderio di significato, di verità e di giustizia che ognuno porta nel cuore. Per questo, l’educazione è il fondamento di ogni sviluppo.
Sempre nella stessa intervista, il ministro Tremonti ha affermato che non bisogna dare i soldi agli Stati perché “finiscono in armi”. Non so se finiscano tutti in armi: di certo, in alcuni Paesi la corruzione è endemica. Questa affermazione del ministro – non dare i soldi agli Stati o, aggiungo io, solo agli Stati – mette in discussione giustamente uno dei più moderni paradigmi che regolano la cooperazione allo sviluppo e cioè il budget support (un assegno dedicato d una specifica attività e “intestato” al ministero competente). È un sistema che apparentemente semplifica la gestione delle risorse e ne riduce i costi amministrativi per il Paese donatore. Nella realtà, istiga e perpetua uno statalismo asfissiante e soffocante per tutte quelle forme sussidiarie che erogano servizi alla persona e che sono presenti anche in Africa.
“Privato sociale” in Africa vuol dire nella maggior parte dei casi la Chiesa cattolica, i suoi missionari e le loro opere, che sono a contatto con i bisogni reali delle persone, con la “gente-gente” e con il “popolo-popolo”. Bisogni reali, come avere una casa, trovare un lavoro o una scuola per i figli. Basti pensare che il 50% dei servizi sanitari di base sono garantiti dal privato sociale, e la stessa percentuale vale per l’accesso all’istruzione primaria.
D’altra parte bisognerebbe ricordare al ministro Tremonti che negli anni della sua gestione i fondi destinati alla cooperazione allo sviluppo sono passati da circa 600 milioni a circa 170 milioni di euro. E 600 milioni sono meno di un settimo dell’obiettivo dello 0,7% del Pil sottoscritto solennemente anche dall’Italia durante gli ultimi G8, L’Aquila compresa. Una cooperazione così intesa, fatta di uno sguardo attento alla “innata dignità” dell’uomo – per usare un’espressione cara a Benedetto XVI -, non merita, ministro, uno sforzo maggiore?
Aiutiamo gli immigrati a casa loro, certo. Ma da esseri umani. Quindi, caro Tremonti, sia coerente, ci metta più soldi da spendere in modo sussidiario. Non sarà mai uno spreco.