Comprendendo come in Libia il rischio di una guerra civile diventi sempre più reale, la Comunità internazionale ha reagito con notevole celerità al fine di scongiurarlo sebbene, se escludiamo la sospensione dei trattati e le condanne dell’ONU, nessuna iniziativa concreta sia stata intrapresa fino ad oggi. Sembrano ormai superate le titubanze e le incertezze con cui Washington, Bruxelles e Mosca, passando per Londra, Parigi e Roma, avevano risposto alle rivolte tunisine, egiziane e yemenite. Le principali organizzazioni internazionali si sono trovate così a discutere di sanzioni, “no flight zone” e aiuti umanitari accompagnati da spostamenti di portaerei al largo delle coste libiche. Nel mentre, per gli insorti il tempo stringe e ogni giorno che passa potrebbe rafforzare la posizione di Gheddafi, pronto a sferrare una controffensiva nella Libia orientale.



La competizione tra i principali attori internazionali che si sta prefigurando in questi giorni é stata inaugurata dagli Stati Uniti, decisi ad inviare le navi USS “Ponce” e la USS “Kearsarge”, quest’ultima con 800 marines e una flotta di 42 elicotteri, al largo della Libia. L’eventualità che Gheddafi lasci il potere in breve tempo non è data per così scontata dal Dipartimento di Stato statunitense; le Legioni Islamiche guidate dal figlio del colonnello, Khamis, minacciano le città già liberate dagli oppositori. Il rischio di un’instabilità prolungata nel tempo e di un “nuovo Afghanistan” nel Mediterraneo esiste, favorita soprattutto dalla frammentazione clanica del Paese. L’Europa ha recepito immediatamente il messaggio proveniente da Washington: l’UE rischia di rimanere esclusa da una partita che vede coinvolti troppi interessi: dall’approvvigionamento energetico, al dossier immigrazione alla stabilizzazione politica dell’area.



Riuscire a dialogare con le forze d’opposizione maghrebine oggi per avere governi “epurati” dalla seppur sopravvalutata minaccia integralista domani, sarebbe una delle prime grandi vittorie politiche per l’Unione Europea. Eppure, le distanze appaiono notevoli. Da una parte il Premier britannico Cameron che, convinto interventista e promotore della “no flight zone”, trova l’appoggio francese, ribadito giovedì dal nuovo Ministro degli Esteri francese Alain Juppé. Dall’altra la Germania e il Presidente della Commissione europea Barroso, il quale, appoggiato dall’intellighenzia europea, propone “un patto per la democrazia e la prosperità condivisa”.



Si tratterebbe in sostanza di aiuti economici nell’ambito della politica europea di buon vicinato; aiuti in pratica già vigenti, ma diretti stavolta ad un pieno sviluppo di istituzioni democratiche e libertà civili. Contro i piani inglesi e francesi, già bollati da qualche osservatore come “neo-imperialisti”, ha decido di agire Mosca: la nutrita comunità musulmana caucasica impone piedi di piombo al Cremlino e il Ministro degli Esteri Serghei Lavrov ha rispedito al mittente l’ipotesi di un intervento armato in Libia.

 

Nemmeno alla Casa Bianca la proposta franco-britannica trova sostenitori; Obama vuole evitare il coinvolgimento militare e, soprattutto, non intende assumersi le responsabilità di lungo termine che deriverebbero dalla fase post-bellica. Non solo; le reazioni del mondo arabo ad un intervento armato occidentale potrebbero rivelarsi ostili e l’attuale contesto socio-politico maghrebino e mediorientale non permette agli USA di commettere errori in una fase tanto delicata.

 

 

L’ipotesi di un intervento armato in Libia appare ad oggi di difficile realizzazione: oltre alla perdita di vite umane che l’opinione pubblica dei Paesi coinvolti dovrebbe essere pronta a sopportare e ai costi economici che l’operazione comporterebbe, è dubbio se l’Occidente conservi forze sufficienti per un intervento internazionale che intenda assumere il controllo del territorio.

 

 

La soluzione proposta in questi giorni dalla Lega Araba, ovvero l’istituzione di una “no flight zone” con operazioni militari condotte unitamente all’Unione Africana, permetterebbe di evitare un coinvolgimento dell’Occidente, smorzando eventuali critiche provenienti dal mondo arabo; è tuttavia difficile immaginare che la Lega Araba disponga delle capacità per implementare una “no flight zone” senza il supporto occidentale. 

Intanto al Jazeera riporta la notizia di operazioni israeliane di reclutamento di un gruppo di ex militari provenienti da diversi Stati sub-sahariani da impiegare in Libia nella difesa del regime di Gheddafi. Un’indiscrezione che, se confermata, dimostrerebbe come Tel Aviv consideri come reale la minaccia islamica a Tripoli.

 

 

In un contesto articolato come quello descritto, l’Italia al momento si limita, su richiesta di Pechino, a realizzare un ponte aereo tra Roma e Tripoli per rimpatriare circa 6.000 cinesi residenti in Libia. Proprio la Cina, già presente nel Paese con diverse attività imprenditoriali, ha incassato il plauso di Gheddafi per la sua non ingerenza negli affari interni della Jamahiriya e per la sua opposizione in seno al Consiglio di Sicurezza ONU alla “no-flight zone”; il leader libico ha promesso che saranno i cinesi a prendere il posto dell’ENI nella gestione dei siti petroliferi del Paese.

 

 

A differenza del resto d’Europa, Roma non ha avanzato alcuna proposta politica riguardo il futuro del colonnello. A parte la promessa di non dare rifugio a Gheddafi in territorio italiano, le attenzioni sembrano tutte concentrate sul dossier immigrazione e sulla richiesta di aiuti europei per far fronte “all’invasione araba”, per la quale si attende con ansia la riunione del Consiglio dei Ministri europeo del prossimo 11 marzo. 

 

(Luca Gambardella, analista di Equilibri.net)


 

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