L’emergenza immigrati è oramai endemica con più di mille sbarchi a Lampedusa. Solo nelle ultime dodici ore dieci sbarchi hanno fatto salire il numero degli immigrati clandestini a 1.408 e il cui Centro di identificazione ed espulsione pare ormai al collasso. Essere filantropici e altruisti oltre che sentimento nobile è anche dovere di quelle società democratiche che hanno della vita il concetto idealistico della fratellanza sociale.



Ma fino a che punto l’uomo, singolarmente e collettivamente considerato, sarà in grado di sopportare il gravame di una vita che subisce la violazione costante della sua appartenenza? Da tempi ancestrali la società umana si è sempre sviluppata fra individui educati alle norme sociali prevalenti e alle relazioni di gruppo o di società. Sviluppo intrattenuto con rapporti sociali nell’ambiente in cui si vive od opera, adattandosi senza difficoltà alle norme di comportamento in questo prevalenti. Sviluppo in agglomerati tribali che, oltre a difendere la tribù (Stato) da possibili malintenzionati, ha fatto del territorio d’appartenenza un confine entro il quale l’accesso agli estranei era (ed è) severamente controllato per impedire infiltrazioni estranee alla collettività. (La storia umana è piagata da migliaia di guerre combattute per l’integrità della “Patria”).

La società moderna, quella che riteniamo evoluta dal progresso denominandosi Stato, tenta di abbattere questo limite e quest’inviolabilità dei confini della Patria – divinità immaginaria dello spirito d’appartenenza – è restata semplicemente la “casa” entro la quale gli appartenenti alla tribù vivono e praticano usi e costumi ereditati dai Padri. La difesa dagli estranei è sempre il motivo ancestrale che condiziona la coscienza degli autoctoni e la sicurezza della propria esistenza resta l’inconscio “freudiano” dell’appartenenza: oltre ai costumi che attribuiscono alla tribù (Stato) gli usi e le leggi della propria eredità culturale.

Il problema si fa tragico quando, oltre a violare l’appartenenza, rendendola promiscua, si accompagna assoluta la necessità dì alimentarsi per vivere. Quando la divisione imposta dalla presenza di estranei alla stessa mensa (spartizione del pane), costringe gli “aventi diritto” (tale si considera l’indigeno) a limitare la sua alimentazione per condividerla con i nuovi “intrusi”, si porrà necessariamente il principio della “Mors tua vita mea” prevarrà sulle belle parole predicate dai politicanti missionari del “Siamo tutti fratelli”.

Non senza escludere il diritto naturale che attribuisce a ciascun uomo la facoltà di autodifendersi quando la propria vita è in periglio. Gli sbarchi che si stanno susseguendo in queste ore sulle coste italiane, di migliaia di diseredati inseguiti dalla guerra, può condizionare la necessità di fermarli prima che la catastrofe ci travolga tutti? Pane, acqua , servizi, case, assistenza, lavoro, ecc., elementi indispensabili per la collettività invasa dai diseredati, possono essere aspramente contesi in omaggio alla fratellanza trasformatasi in invasione? È necessario che gli Stati – cui compete il dovere di tutelare le appartenenze statuali – si facciano promotori di quelle azioni che dando sostegno agli infelici in fuga, consenta loro di restare il Patria a curare le disuguaglianze sociali determinate da satrapie e dittature troppo a lungo consentite.

Abbiamo il dovere di essere filantropici (non siamo razzisti né sciovinisti), ma prima di ogni altro abbiamo il dovere di considerare la nostra sopravvivenza tutela imprescindibile verso di noi e verso i nostri figli.

(Celestino Ferraro, lettore)