Nel quadro di un orizzonte complessivo che è ancora quello cui già in precedenza avevamo fatto cenno, i punti fermi da cui prendere le mosse per favorire una soluzione non catastrofica della crisi libica sono i seguenti:
Gheddafi è ancora al potere, e la sua caduta non appare affatto prossima.
Riattualizzando la storica linea di frattura tra i due territori tra loro eterogenei e antagonistici di cui la Libia si compone, la rivolta è scoppiata e si è consolidata in Cirenaica ma sembra non possa affatto facilmente estendersi alla Tripolitania.
A causa dei notevolissimi investimenti della Libian Investment Authority, il “fondo sovrano” della Repubblica Libica, in Italia, nel resto d’Europa e anche negli Usa sussistono nessi di reciproca dipendenza che legano la mani a tutte le parti in gioco, da Gheddafi (malgrado quel che dice) all’Occidente passando per gli insorti della Cirenaica.
Stante la difficile congiuntura economica internazionale, né i paesi grandi produttori (Libia compresa) né i paesi grandi consumatori di gas naturale e di petrolio possono permettersi a lungo i perturbamenti speculativi del mercato degli idrocarburi che la crisi libica inevitabilmente innesca.
In questa crisi il nostro paese è il membro del G7/G8 che più di ogni altro potrebbe dare un forte e forse decisivo contributo a quella soluzione non catastrofica della crisi di cui si diceva.
Se si vuole lavorare efficacemente per la pace occorre essere nel medesimo tempo fermi e realisti, restando inteso che il realismo cui qui ci riferiamo non ha niente a che vedere con il cinismo della Realpolitik, ma attiene piuttosto alle virtù cardinali della prudenza e della temperanza. La stagione di Gheddafi volge al tramonto, ma conviene a tutti che la sua uscita di scena si ispiri al modo con cui il Cile si liberò di Pinochet senza finire in macerie, piuttosto che a quell’assalto al Palazzo d’Inverno, bello e glorioso soltanto sui manifesti commemorativi, con cui la Russia si liberò dello Zar cascando nelle mani di Lenin e subito dopo di Stalin.
In questo senso, dicevamo, l’Italia può fare molto grazie al fitto intreccio di relazioni che ha con la Libia, e più precisamente che ha sia con la Tripolitania che con la Cirenaica, non solo a livello inter-governativo ma anche e soprattutto a livello per così dire sub-governativo. Desta invece preoccupazione il fatto che al largo delle coste libiche stia incrociando un gruppo tattico della Marina degli Stati Uniti la cui forza principale consiste, se non abbiamo capito male, di una o più navi d’assalto anfibio.
A parte la forma, che si può definire quantomeno irrituale (per dirla nel modo più diplomatico possibile), il ministro Maroni ha perciò avuto del tutto ragione nella sostanza quando ieri ha invitato Washington a “darsi una calmata”. Uno sbarco a Tripoli fu nel secolo XIX la prima operazione dei Marines fuori delle Americhe, tanto che il nome dell’attuale capitale libica echeggia nelle prime strofe del loro inno. C’è da augurarsi di tutto cuore che li facciano resistere alla nostalgica tentazione di replicarlo ora.
Da un punto di vista militare sarebbe certamente un successo, ma anche l’inizio di guai senza fine. Che restino per l’amor di Dio sulle loro navi d’assalto anfibio (che sono nel medesimo tempo delle porta-elicotteri d’attacco e delle navi-darsena di mezzi da sbarco: macchine da guerra impressionanti e a loro modo affascinanti per concezione e per potenza di fuoco). Nel frattempo però occorre che l’Italia faccia la propria parte giocando organicamente tutte le carte che può giocare. Un’operazione delicata cui non giovano di certo i sermoni di Veltroni, né tanto meno le uscite di Casini e di Di Pietro, spregiudicati “apprendisti stregoni” pro domo sua dei quali in una situazione del genere davvero non ci sarebbe bisogno.
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