«Un intervento militare della Nato in Libia sarebbe pura follia, perché vorrebbe dire assumersi la responsabilità del dopo Gheddafi, rischiando di unire contro l’Occidente tutte le tribù che si sono ribellate al dittatore». Lo afferma Vittorio Emanuele Parsi, dopo che il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha dichiarato che «se Gheddafi e il suo regime continueranno ad attaccare sistematicamente la popolazione civile, non posso immaginare che la comunità internazionale e l’Onu rimangano a guardare». Per l’editorialista de La Stampa, al contrario, «l’unica soluzione possibile all’attuale crisi è coinvolgere Lega araba e Unione africana, per isolare il dittatore di Tripoli dal punto di vista politico e diplomatico».
Parsi, che cosa ne pensa delle dichiarazioni di Rasmussen?
Intanto la presa di posizione è già stata rettificata. La Nato è disponibile a mettere a disposizione delle Nazioni Unite la sua struttura militare, qualora il Consiglio di sicurezza decidesse di decretare la no flight zone. Nessuno insomma ha intenzione di fare nulla senza l’autorizzazione dell’Onu.
Ma in concreto che cosa potrebbe fare la Nato?
Mettere a disposizione la sua struttura organizzativa per fare rispettare l’embargo, ispezionando i navigli diretti verso la Libia. Qualora l’embargo venisse rafforzato, questa struttura potrebbe procedere a una stretta più solida sul regime libico.
Sarebbe un passo nella giusta direzione?
Se lo dovessero attuare delle forze occidentali, sarebbe l’inizio di una serie di guai a non finire. Basta vedere quello che sta avvenendo in Afghanistan, dove gli alleati continuano a bombardare persone che non c’entrano nulla con i talebani.
Tutti parlano di appoggiare i ribelli di Bengasi. Ma quali sono le loro vere intenzioni?
Intanto vogliono liberarsi del regime di Gheddafi. Poi, quando il «nemico» sarà stato sconfitto, inizierà la competizione tra gli attori che sono rimasti sul campo. Proprio come in Egitto e in Tunisia. Nel momento in cui non c’è più il «nemico» che polarizza, cioè Gheddafi, si apre una dinamica politica differente. C’è però un errore da evitare assolutamente: fornire a questa coalizione un altro nemico contro cui polarizzarsi, cioè la Nato. Proprio quello che accadrebbe se noi occidentali intervenissimo in Libia. Per questo un’azione militare nella Jamahiriya sarebbe pura follia. Già lo abbiamo fatto in Iraq, con le stesse motivazioni, che senso ha creare un nuovo scenario molto simile? E non è tutto: se la Nato effettua un intervento militare, vuole dire che si fa garante della transizione. Equivale a dire che si assume la responsabilità di tutto quello che avverrà in Libia da quel momento in poi. Siamo sicuri di volerlo fare?
Quale può essere quindi la soluzione migliore per porre un argine a Gheddafi?
In questo momento la cosa più importante sarebbe in realtà fornire un sostegno politico e diplomatico ai ribelli, piuttosto che pensare di intervenire militarmente o riempirli di armi. Anche perché i ribelli stanno resistendo, Gheddafi usa l’aviazione e i carri armati, ma la differenza di mezzi non produce effettivi vantaggi sul campo nei confronti dei lealisti.
Sul piano diplomatico però le condanne dell’Onu finora non hanno prodotto effetti…
Infatti la strada da percorrere sarebbe un’altra. In questo momento gli unici che potrebbero spostare ulteriormente l’ago della bilancia sarebbero la Lega araba e l’Unione africana. Questi organismi, in nome della fratellanza araba e islamica e della solidarietà africana, potrebbero fare ciò che è precluso all’Occidente. In primo luogo chiudendo i confini meridionali della Libia. Al contrario, pensare che dal Mediterraneo la Nato riesca a bloccare i flussi di mercenari e di armi che arrivano dall’Africa, mi sembra un’utopia. Questo può essere realizzato solo da forze presenti sul terreno, e possono essere solo forze africane o arabe, non certo occidentali. Da un punto di vista diplomatico, inoltre, il problema è favorire l’accreditamento del governo provvisorio di Bengasi negli stessi organismi nei quali al momento è accreditato quello di Gheddafi. Potrebbe essere l’inizio di una serie di azioni più pressanti e incisive sul dittatore libico, visto che in quegli organismi sono inclusi tutti i Paesi che confinano con la Libia.
Gheddafi è l’unica alternativa a una deriva fondamentalista in Libia?
No. Credo che la cosa più probabile che potremmo aspettarci dopo un’eventuale caduta di Gheddafi sia nel breve periodo una situazione di incertezza, e poi il ristabilimento di una qualche forma d’ordine. I responsabili dei clan e delle tribù potrebbero mettersi insieme dare luogo a una sorta di Loya Jirga afghana, cioè una grande assemblea creata su base confederativa.
La condanna di Gheddafi da parte di Obama è sincera o è basata sull’opportunismo?
Nessuno, immagino neanche Berlusconi, ha simpatia per Gheddafi. Ma essendo il nostro dirimpettaio, con lui bene o male si doveva trattare. E lo stesso vale anche per gli americani. Un altro conto è ora che Gheddafi ha superato il limite del buonsenso. La scelta Usa di chiedergli una resa incondizionata, con tanto di processo a lui e ai suoi familiari e di confisca dei beni, equivaleva a dirgli: «Combatti fino alla morte». Ed è proprio quello che farà. Ecco perché non è stata un’idea, diciamo, geniale.
Da un punto di vista sociale la Libia assomiglia di più all’Egitto o all’Afghanistan?
La Libia non ha sicuramente la stessa complicazione etnica dell’Afghanistan. Le tribù libiche sono tutte arabe, e di popolazioni che parlano la stessa lingua. Certo Cirenaica e Tripolitania sono differenti, la Libia è un’invenzione a tavolino, ma se è per questo lo è anche il Belgio che pure non ha mai avuto una guerra civile. Inoltre in Libia non c’è quell’Islam particolarmente aggressivo tipico dell’Asia. Rispetto all’Egitto la grande differenza è che non ci sono istituzioni politiche. Sotto Mubarak c’era uno Stato che, come espressione di una società evoluta e progredita, era un modello per il mondo arabo ancora nell’Ottocento. La Libia è tutt’altro: un Paese molto più povero, rozzo e primitivo, che 40 anni di Jamahiriya hanno azzerato dal punto di vista istituzionale trasformandolo in una società di persone che vivono sostanzialmente dell’elemosina, magari generosa, del regime.
(Pietro Vernizzi)