Il temporaneo esito della crisi libica, con un paese in guerra, di fatto diviso in due tra le zone controllate dai rivoltosi e quelle ancora sotto il controllo del regime di Muammar Gheddafi, apre scenari politici difficilmente prevedibili, ponendo allo stesso tempo rilevanti interrogativi sugli interessi dell’Italia e degli altri paesi occidentali.
Le proteste scaturite nel paese a cominciare dal 17 febbraio scorso “giornata della collera” hanno condotto a insurrezioni in varie città. La totalità della Cirenaica è passata nelle mani degli insorti, mentre la Tripolitania è rimasta in buona parte sotto controllo del regime. Alcune sacche di resistenza, essenzialmente nelle città di Zawia e Misurata, sono state isolate dalle forze dell’esercito libico. Nei giorni successivi al 17 sino ad oggi, prima il tentativo di ulteriori rivolte, poi quello della riconquista di alcune aree strategiche da parte di Gheddafi, Sirte e Marsa El-Brega in particolare, hanno condotto all’attuale situazione di stallo tra le due forze in un più ampio contesto di guerra civile. In queste ultime ore gli insorti confermano l’apertura e l’immediata chiusura di contatti con il regime mentre Tripoli smentisce e parla di notizie “spazzatura” raccontate dai media di tutto il mondo. Quello che sta accadendo in queste ore è avvolto nel mistero, poche sono le dichiarazioni ufficiali.
La disponibilità di mezzi militari e finanziari, il supporto di buona parte dei clan della Tripolitania e del Fezzan, congiuntamente alla debolezza e disorganizzazione degli insorti, permette a Gheddafi di resistere. La storica frattura tra la Tripolitania, che è parte del Maghreb (l’Occidente arabo), e la Cirenaica collegata invece all’Egitto e oltre al Mashrek (l’Oriente arabo) sembra riemergere, nonostante tutti i tentativi compiuti da Gheddafi per neutralizzarla all’interno di un’unica nazione libica. Il rischio è che, se il regime di Gheddafi non cadesse in tempi brevi, la crisi porti a una revisione della statualità del paese e sancisca la divisione tra le due regioni o ad una situazione di caos, con sovrapposizione di autorità e incertezza del controllo territoriale simile a quella della Somalia.
La Libia degli ultimi 41 anni (Gheddafi prese il potere il 1° settembre 1969) è stata una dittatura militare il cui regime, seppur capace di mantenere stabilità e continuità al paese, non ha garantito alcuna forma di opposizione politica, di dissenso organizzato, di libertà di stampa e molto spesso ha impedito ad associazioni interne o straniere di indagare o divulgare dati relativi alla condizione dei diritti civili e politici dei libici e dei cittadini stranieri, numerosi, presenti nel paese. Essendo le organizzazioni tribali o regionali del paese pienamente coinvolte nella redistribuzione del potere della ricchezza nazionale, tramite la forma dei comitati popolari all’interno della formula della Jamahiriya inventata da Gheddafi – è sempre stato difficile che si organizzassero per rappresentare una qualsiasi forma di opposizione. Il patto sociale implicitamente offerto da Gheddafi, tipico dei rentier state, quello basato sulla distribuzione della rendita petrolifera in cambio della mancanza di diritti civili, è rimasto sostanzialmente stabile. Ora questo patto si è rotto.
Il futuro del paese, qualsiasi sia l’esito dell’attuale situazione di conflitto, sarà il risultato della sintesi dei due elementi maggiormente caratterizzanti: la conformazione di stato distributivo (la rendita energetica è pari al 95% delle entrate dell’economia del paese) e il tessuto sociale “clanico”. La necessità di vendere petrolio e gas è quindi vitale per il funzionamento dello stato. Una peculiarità che, teoricamente, porrebbe l’Italia nuovamente in prima fila tra i partner della Libia vista la complementarietà economica tra i due paesi. Tuttavia permane il rischio di un’influenza sul paese di nuovi attori. Il primo fra tutti è una Cina desiderosa di petrolio e pronta a offrire manodopera a basso costo. I nuovi leader libici, chiunque essi siano, potrebbero veder bene il rapporto con attori diversi per smarcarsi da vecchie amicizie o da vicini scomodi.
Attorno alla Libia è già in atto un gioco per amicarsi la nuova classe dirigente con protagoniste le potenze occidentali. In tal senso è da registrare il neo-attivismo britannico (e soprattutto di Cameron) nell’area e in Libia in particolare. La crisi di Suez del 1956 la vide uscire dal Mediterraneo. Oggi la caduta di Ben Ali. Mubarak e quella probabile di Gheddafi, tre partner politici ed economici dell’Italia, rappresentano per l’Italia un forte elemento di crisi e di necessario ripensamento della nostra politica estera nell’area. Per gli inglesi sembra invece costituire un’opportunità: il ritorno ad un ruolo di primo piano nel Mediterraneo. Tuttavia il fallimento dell’operazione britannica di otto membri delle SAS, l’élite delle forze armate, nello stabilire un rapporto con il “governo” dei rivoltosi a Bengasi la dice molto lunga sulla difficoltà di muoversi con dimestichezza in Cirenaica. Secondo voci non confermate facevano parte della missione anche due funzionari dei servizi segreti MI6. Il team britannico era stato arrestato quando il loro elicottero era atterrato a Bengasi giovedì senza avere ottenuto il permesso dei comandanti dei ribelli, e armi, esplosivi, cartine e passaporti falsi erano stati trovati a bordo. I ribelli li avevano presi per mercenari e li avevano arrestati.
Per l’Italia forse c’è ancora speranza…