Le proteste esplose nella cittadina di Daraa, vicino al confine con la Giordania, rischiano di trasformare la Siria in una bomba ad orologeria per i precari equilibri socio-politici mediorientali. La Siria è collocata geograficamente nel crocevia strategico tra Africa settentrionale, Mediterraneo e Golfo Persico ed è interessata da anni da un tormentato, e tutt’oggi irrisolto, processo di pace con Israele, con cui confina attraverso le contese Alture del Golan. Dall’altra parte, a est, si affaccia la frontiera irachena, oltre la quale il conflitto del 2003 ha portato alla caduta di Saddam Hussain. A nord, a pochi chilometri da Aleppo, la Turchia, ponte tra Occidente e Oriente. Confini che, se le rivolte dovessero diffondersi in tutto il territorio siriano, diverrebbero improvvisamente assai meno permeabili e pacifici. La realtà sociale siriana appare estremamente composita ed è questa forse la debolezza maggiore del regime. Arabi alawiti (vicini alla setta sciita), arabi sunniti, curdi, drusi e armeni convivono tutti all’interno del territorio siriano.
La dinastia degli al Assad, al potere dal 1970, è alawita, minoranza che rappresenta meno del 20% della popolazione. Ma così come per la Libia, anche la Siria non è che una invenzione occidentale, risalente al 1920, quando alla Conferenza di Parigi si optò per includere nel territorio della neonata Repubblica siriana anche una cospicua minoranza curda.
Oggi i curdo-siriani, in prevalenza sunniti, rappresentano il 9% della popolazione, concentrandosi perlopiù nel nord-est, nella municipalità di al Hasakah e, in minor parte, in quella di Aleppo. Prima delle larghe intese degli ultimi anni, le relazioni tra Siria e Turchia hanno spesso risentito nel passato della variabile curda. Damasco appoggiava il PKK militarmente ed economicamente, mentre Ankara contendeva allo scomodo vicino lo sfruttamento delle acque dell’Eufrate. Ma la politica “neo-ottomana” – caratterizzata dal rafforzamento delle relazioni diplomatiche turche verso il Medio Oriente – favorita dal Primo ministro turco Erdogan ha da diversi anni portato ad una distensione, fino ad arrivare alla sottoscrizione di decine di accordi economici nel giro di pochi anni con Damasco, la quale ha interrotto il suo appoggio al PKK.
Oggi, la nutrita minoranza curdo-siriana è oggetto di discriminazioni da parte del regime a causa della sua natura propriamente non araba e quindi non in linea con il panarabismo di stampo governativo. Stanziati in un territorio montagnoso, poco inclini alla cooperazione tra le varie tribù in cui sono divisi, i curdo-siriani non sono riusciti fino ad ora a far valere le proprie rivendicazioni per ottenere pari diritti civili rispetto alla popolazione arabo-siriana.
Ad oggi, i curdi sono rimasti spettatori interessati nell’evoluzione delle rivolte in Siria, temendo soprattutto future ritorsioni da parte del regime se questo dovesse restare al potere. Al Assad infatti si è sempre sentito libero di avvalersi della legge di emergenza, in vigore da 48 anni, per autorizzare, secondo le molte fonti internazionali, arresti sommari, torture o omicidi ai danni della minoranza curda.
Già accusati di aver assunto un ruolo guida nelle rivolte di questi giorni, i profughi palestinesi rappresentano un’altra minaccia per il regime di Damasco. Sebbene ammontino oggi a più del 6% della popolazione, i palestinesi non dispongono di eguali diritti rispetto ai siriani. La piaga della disoccupazione e i problemi economici di un Paese già colpito dall’embargo economico statunitense, ha infatti portato i siriani a vedere i palestinesi con crescente sospetto, in quanto potenziali concorrenti nella ricerca di un lavoro o nell’avvio di attività commerciali nel Paese. Ad oggi, i profughi non dispongono di passaporto siriano (in quanto per il governo essi sono appunto “palestinesi”) imponendo loro forti limitazioni nell’avvalersi di diritti civili o economici e relegandoli alla stregua di uomini “senza patria”.
Dal 2003, ovvero dall’avvio delle operazioni militari in Iraq, i profughi iracheni hanno cominciato a riversarsi in Siria. A Damasco interi quartieri sono abitati esclusivamente da iracheni, afflitti da povertà e disoccupazione. In un Paese con ben poco da offrire sotto il profilo delle opportunità economiche, gli iracheni sunniti hanno così accentuato i malumori dei siriani, per i quali l’origine di tutti i mali nazionali è stata proprio lo scoppio della Guerra in Iraq del 2003.
La delicata armonia tra sunniti e sciiti è stata turbata dall’arrivo degli iracheni, accentuando gli attriti tra i due rami dell’Islam in Siria e portando la bilancia a pendere dalla parte sunnita. Con la guerra in Iraq, i siriani hanno quindi cominciato a temere il ritorno del settarismo religioso, sconosciuto nel Paese dai tempi dell’eccidio di Hama del 1982 e perpetrato da Hafez al Assad, padre di Bashar, contro i Fratelli Musulmani sunniti. Ricordiamo infatti che la Siria è tra i Paesi laici della regione.
Le enormi criticità racchiuse nell’ipotetica implosione della Siria, quindi, non possono che influenzare il panorama politico regionale. Il Primo ministro turco Erdogan si è immediatamente attivato per spingere al Assad sulla strada delle riforme nel più breve tempo possibile, prendendo contatti anche tramite il capo dell’intelligence nazionale turca: il rischio curdo è reale e, come asserito da un report del 2006 di Clatham House, non sono da escludere alleanze con i Fratelli Musulmani. Il Libano resta sospeso, col timore di ritrovarsi senza il vero attore protagonista della politica interna di Beirut, oltre che storico alleato di Hezbollah. L’Iran, per lo stesso motivo, si sente in pericolo, rischiando di perdere il solo vero alleato nel mondo arabo (oltre ad Hezbollah naturalmente). Israele, allo stesso tempo, teme le rivolte siriane, le quali incrinano la posizione di un altro interlocutore disposto al dialogo nell’ambito del processo di pace mediorientale, dopo la caduta di Mubarak in Egitto.
Se davvero quindi le rivolte contageranno la Siria con la stessa violenza con la quale hanno sconvolto il Maghreb, il futuro del Paese e della regione mediorientale risiederanno su diverse variabili: nella volontà di al Assad di avviare le riforme e calmare il risentimento popolare; nelle decisioni delle potenze regionali (vedi la Turchia) di intervenire attivamente nella gestione della crisi; infine nella reale volontà delle diverse opposizioni interne al Paese di volersi spingere fino al rovesciamento del “Leone” di Damasco.
(Luca Gambardella, analista Equilibri.net)