«In Medio Oriente mi aspetto un processo “rivoluzionario” che richiederà anni o meglio decenni prima di portare a un cambiamento. Ma ritengo che sulla lunga durata produrrà un effetto positivo: la gente nei Paesi arabi si è svegliata, e non credo che in futuro tornerà facilmente a dormire». Ad affermarlo, in un’intervista esclusiva a ilsussidiario.net, è il vicario apostolico d’Arabia, Paul Hinder. Il suo vicariato, la cui sede si trova ad Abu Dhabi negli Emirati Arabi Uniti, si estende su Arabia Saudita, Qatar, Bahrein, Yemen e Oman. Dalla sua posizione privilegiata, nel cuore del mondo arabo attraversato da continue rivolte, il vescovo osserva che in quanto sta avvenendo «non c’è in alcun modo un conflitto tra cristiani e musulmani. La diversità della religione è un aspetto strumentalizzato, sia dall’Arabia Saudita sia da altri che non vogliono che gli sciiti abbiano gli stessi diritti. Dobbiamo quindi essere molto cauti, evitando di entrare anche noi nella trappola di vedere tutto sotto un’angolatura confessionale».



Mons. Hinder, come valuta rischi e opportunità di quanto sta avvenendo?

Innanzitutto occorre distinguere tra un Paese e l’altro. Ciò che sta avvenendo nello Yemen non è lo stesso che accade in Bahrein o nel Nord Africa. Anche se ci sono dei punti di contatto, c’è un risveglio tra i giovani, che molto spesso sono senza lavoro, e chiedono in un modo ancora non ben definito più libertà e partecipazione nella vita civile. Che cosa avverrà alla fine di tutto il processo oggi non lo può dire nessuno. In passato questi Paesi non hanno mai avuto un’esperienza democratica. Inoltre non sappiamo quale sia l’influsso di certi movimenti più radicali, né che cosa avverrà delle persone che hanno lasciato il potere, ma potrebbero ritornare tramite altri canali. Penso soprattutto all’Egitto e alla Tunisia.



Ma nel lungo periodo quanto è iniziato in questi mesi avrà effetti positivi o negativi?

Se anche solo si riuscisse a produrre una presa di coscienza del fatto che una società non si costruisce solo grazie a qualche dittatore o monarca, si potrebbe già parlare di un effetto positivo. Soprattutto nei Paesi più ricchi del Medio Oriente, c’è una mentalità assistenzialistica che è difficile da superare. Grazie a petrolio e gas c’è benessere, e dal punto di vista materiale va tutto bene. Ma il benessere materiale non basta, ci vuole un senso più profondo di appartenenza e di responsabilità, la percezione di costruire una società insieme a chi detiene il potere. Per questi motivi, penso che tutto il processo a lunga scadenza avrà un effetto positivo. La gente nei Paesi arabi si è svegliata, e non credo che in futuro tornerà facilmente a dormire.



Quali saranno gli effetti delle rivolte sui rapporti tra cristiani e musulmani?

In Egitto, Siria e Iraq c’è una presenza molto antica sia dei cristiani sia dei musulmani. Mentre nei Paesi del mio vicariato non ci sono cittadini cristiani, ma migliaia se non milioni di immigrati giunti per lavoro, una parte dei quali è cristiana. Non è quindi la stessa situazione, e qui non c’è alcun conflitto tra cristiani e musulmani. C’è un altro aspetto significativo, cioè la presenza di diverse correnti dell’Islam, soprattutto sunniti e sciiti. In Bahrein quindi il vero problema è la discriminazione sociale, mentre la diversità della religione è un aspetto strumentalizzato, sia dall’Arabia Saudita sia da altri che non vogliono che gli sciiti abbiano gli stessi diritti. E dietro a tutto ciò ovviamente c’è il problema legato ai rapporti con l’Iran. Dobbiamo quindi essere molto cauti, evitando di cadere anche noi nella trappola di vedere tutto sotto l’angolatura della religione. La mia impressione infatti è che gli sciiti siano considerati dei capri espiatori per la loro religione. E troppo spesso leggendo la stampa occidentale ho l’impressione che utilizzi la stessa logica, che è già politicamente strumentalizzata.

In che senso?

Dietro a quanto sta avvenendo c’è innanzitutto il problema della mancanza di lavoro. Ed è questo che in futuro potrà creare dei problemi anche agli immigrati cristiani, perché con l’aumento della disoccupazione la situazione che li riguarda può diventare una bomba a orologeria.

Gli immigrati cristiani sono stati minacciati dopo l’inizio delle proteste?

Non in quanto cristiani. Nel centro di Manama, la capitale del Bahrein, c’è una chiesa cattolica che non è stata attaccata in nessun modo, né dagli sciiti né dai sunniti. Almeno finora: speriamo che continui così.

Monarchie e dittature della Penisola arabica riusciranno a sopravvivere alle proteste?

Se queste monarchie sono in grado di tenere il popolo in silenzio con le concessioni, come sta avvenendo in Arabia Saudita, possono ancora durare per un certo tempo. Non credo però che sia una soluzione sostenibile per il futuro, almeno sulla lunga durata. Anche i giovani della Penisola arabica, molti dei quali hanno ricevuto una buona educazione, sono in grado di leggere ciò che sta capitando a livello mondiale e sono «mentalmente globalizzati». Non credo quindi che alla lunga accetteranno che una famiglia o un’unica persona decidano per tutti. Il desiderio di libertà e di una certa indipendenza individuale a lungo andare saranno più forti di tutti i regali.

Ma la democrazia è realmente possibile nel mondo arabo?

Io non appartengo a quelle persone che dicono: «In questi Paesi la democrazia è impossibile». Anche se essendo di origini svizzere, so quanti secoli sono stati necessari al mio Paese per creare una democrazia funzionante. Il Medio Oriente dovrà reinventarsi la democrazia sulla falsariga della sua storia e della sua esperienza culturale, anche tenendo conto del sistema tribale e familiare, che in questa regione è molto più forte che altrove. Nel mondo arabo esistono alcune istituzioni che possono essere utilizzate per creare un sistema che possa funzionare democraticamente. Per esempio ogni settimana il capo della tribù dà la possibilità a tutti i membri di recarsi da lui ed esprimergli le loro preoccupazioni. Noi occidentali generalmente pensiamo alla democrazia solo con le nostre categorie, ma non dobbiamo dimenticarci che il sistema politico della Svizzera è diverso da quello britannico, tedesco o italiano.

In che modo l’Occidente può aiutare il mondo arabo a costruire la democrazia?

La democrazia non si può né esportare né imporre. L’idea di Bush per l’Iraq forse nasceva da un’intenzione buona, ma non può funzionare senza la partecipazione della gente e senza tenere conto delle diversità delle società. Perché la democrazia sia compiuta, occorre superare la fase in cui la maggioranza domina assolutamente la minoranza senza concederle diritti umani. Le democrazie occidentali possono fornire supporto a questo processo, insegnando a come risolvere i conflitti in modo pacifico. Può essere un servizio modesto ma utile, che però i Paesi arabi devono innanzitutto volere.

Che cosa ne pensa dell’intervento occidentale in Libia?

La differenza rispetto alla seconda guerra in Iraq è che c’è una copertura di organismi internazionali come l’Onu e la Nato e la volontà di una parte della Lega araba. Nello stesso tempo però condivido quanto affermato a suo tempo da Giovanni Paolo II, quando disse che una guerra non risolve il problema. Anche se forse per noi ecclesiastici è più semplice fare queste affermazioni. Nel caso della Libia comunque era probabilmente troppo naif credere di potere fare una guerra pulita, perché ogni guerra, anche se si cerca di limitare l’impatto sui civili, sarà sempre qualcosa di crudele, di violento e che creerà necessariamente anche delle vittime innocenti.

(Pietro Vernizzi)