«Quello che colpisce del popolo palestinese è l’estrema divisione al suo interno. Ci sono tante fazioni diverse, ma anche tra le persone delle varie città, o che vivono nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, non corre buon sangue». A rivelarlo è una cooperante italiana che si trova a Betlemme, in Cisgiordania, per sviluppare un progetto internazionale finalizzato ad aiutare i palestinesi. La ragazza, che preferisce non rivelare il suo nome, conosceva direttamente Vittorio Arrigoni, il 36enne italiano ucciso venerdì mattina all’alba da una cellula salafita. Intervistata da ilsussidiario.net, la cooperante racconta la difficile vita quotidiana dei numerosi dipendenti delle associazioni non profit che lavorano nei territori dell’Autorità nazionale palestinese.



Quali sono le principali difficoltà che vi trovate ad affrontare a Betlemme?

La situazione è difficile all’esterno, per il fatto di vivere in un territorio circondato dal muro israeliano, ed è complessa anche per come, all’interno dei territorio della Cisgiordania, la sta vivendo il popolo palestinese. Insomma è una situazione un po’ pesante, e immagino che a Gaza lo sia anche di più.



Vuole dire che all’interno del popolo palestinese ci sono diverse anime?

Sì, sicuramente. Il popolo palestinese è diviso anche al suo interno, almeno per quello che abbiamo visto noi in Cisgiordania. Ci sono tante fazioni, e non dà l’impressione di essere un popolo esattamente unito. Ci sono delle sensibilità molto diverse tra i palestinesi e questo parlando con la gente lo si percepisce chiaramente. Ma non sono soltanto delle differenze politiche. I palestinesi della Cisgiordania per esempio non amano molto quelli di Gaza, e lo stesso vale per le persone che vivono in città diverse. Sono differenze che, in qualche modo, si riscontrano anche in Italia, ma in un contesto come quello palestinese fanno ancora più impressione: neanche l’«occupazione» israeliana spinge i palestinesi a unirsi sotto un obiettivo comune. E del resto fa pensare a questo anche ciò che è successo a Vittorio, che era una persona molto vicina ai palestinesi, eppure è stato assassinato proprio da alcuni di loro.



Dove ha incontrato Arrigoni e che ricordo ha di lui?

L’ho incontrato in Italia durante la presentazione del suo libro, Restiamo umani, e poi siamo rimasti in contatto. Mi ha dato fin dall’inizio l’impressione di una persona molto passionale.

Le ha parlato delle motivazioni per cui si trovava in Palestina?

Sostenere i diritti umani e la causa della libertà del popolo palestinese. Questo era quello che voleva. Ed è per questo che ha scelto di restare a Gaza, nonostante gli avessero proposto di trasferirsi altrove. Gli avevano offerto la possibilità di fare un tour per presentare il suo libro, tornando tra l’altro in Italia, ma lui aveva deciso che il suo posto era a Gaza, e non voleva restare in nessun altro luogo al mondo.

Dopo quanto è capitato non le è venuto il pensiero di tornare in Italia, o quantomeno di difendere la sua sicurezza?

No, c’è l’idea di continuare ugualmente, indipendentemente da quanto è avvenuto, anzi a maggior ragione. Inoltre, non abbiamo mai sentito il bisogno di prendere provvedimenti per nostra sicurezza e non stiamo pensando di cambiare la nostra posizione ora.

Che cosa la spinge a non mollare?

Il fatto di riconoscere che qui in Palestina c’è un bisogno. E quindi il bisogno permane indipendentemente da tutto, inclusi gli eventuali rischi dopo quanto è accaduto a Vittorio.

C’è qualche circostanza che l’ha colpita particolarmente da quando è qui?

Qui in Cisgiordania mi capita quotidianamente di essere colpita, perché la povertà è molto più diffusa in Palestina di quanto si possa pensare. Quindi basta camminare per le strade, o visitare un campo profughi, in qualsiasi contesto lo si può vedere.

Com’è la situazione nei campi profughi?

Nei campi è tutto gestito dall’Unrwa (United Nations Relief and Works Agency, Soccorso delle Nazioni Unite e Agenzia per i Lavori, ndr). La disoccupazione in Cisgiordania è molto alta e negli ultimi anni è addirittura peggiorata, nei campi profughi è superiore al 70 percento. Anche per quanto riguarda la sanità la situazione è problematica, in quanto non esiste un sistema sanitario nazionale perché la Palestina non è uno Stato. Quindi ci sono vari attori che operano: l’Unrwa si occupa dei campi profughi, c’è il ministero della Salute palestinese e ci sono anche molti donatori internazionali, per esempio molti dei malati palestinesi vengono spostati all’estero. Ma essendoci un contesto di occupazione, i margini di manovra per gli enti non profit sono ristretti.

Che cosa fa tutto il giorno un 20enne disoccupato che vive in un campo profughi?

È un bel problema, molti giovani cercano di andare a studiare, di iscriversi all’università, chi può emigra.

La situazione in Cisgiordania è simile a quella della Striscia di Gaza?

No, esiste una marcata differenza tra la Cisgiordania e la Striscia, dove c’è il blocco di Israele all’importazione di certi beni umanitari e materiali di costruzione. Ed è proprio per questo motivo che serve un permesso particolare per entrare in Gaza, tanto che noi che ci troviamo nella West Bank non abbiamo il lasciapassare per la Striscia.

Si percepisce un’ostilità verso gli stranieri?

Per quello che abbiamo vissuto noi no, almeno non da parte delle persone che abbiamo incontrato da quando siamo arrivati a Betlemme.

Da dove è nata la sua passione per la Palestina?

Avevo fatto altre esperienze in Medio Oriente, e in particolare in Giordania, quindi avevo scelto la Palestina per questo motivo. Il progetto mi interessava, perché ci occupiamo del sostegno umanitario alle fasce più deboli, in particolare della sanità e dello sviluppo economico della società. E del resto è una passione che ho sempre avuto, in quanto all’università ho studiato cooperazione internazionale. Volevo occuparmi dei Paesi del Terzo mondo, e dopo diverse esperienze in Medio Oriente ho deciso di continuare sempre nella stessa area geografica.

(Pietro Vernizzi)