«Gheddafi sta usando chiaramente l’intervento occidentale in Libia per delegittimare la rivolta contro il suo regime. Se i Paesi arabi portassero maggiore aiuto, la solidarietà sarebbe meglio accettata e meno pericolosa per la costruzione politica del futuro». Ad affermarlo è il francese Yann Richard, professore emerito dell’Università Sorbona di Parigi ed esperto di islam sciita e cultura iraniana. Per quanto riguarda l’Iran, Richard osserva che l’Onda verde coglierà qualsiasi occasione per tornare a farsi sentire, ma un’eventuale caduta di Ahmadinejad e l’instaurazione della democrazia presentano non pochi rischi. Fornendo inoltre panoramiche ad ampio raggio, dall’Egitto all’Arabia Saudita fino ad arrivare all’Iraq. Dove per l’esperto francese le persecuzioni dei cristiani sono la conseguenza diretta della connotazione di crociata data dagli americani alla guerra contro Saddam Hussein nel 2003.



Professor Richard, quali sono le principali somiglianze e differenze tra la rivoluzione in Iran del 1979 e l’ondata di proteste nel mondo arabo cui stiamo assistendo oggi?

Vi sono molte ovvie somiglianze nei mezzi e nelle forme della mobilitazione: la protesta contro regimi autoritari, la richiesta di diritti civili, le dimostrazioni di massa nelle città, l’uso dei nuovi media (il telefono, il fax, le videocassette nel 1979, Facebook e Twitter oggi) per contrastare la propaganda ufficiale. Nella rivoluzione iraniana vi erano due tendenze ideologiche dominanti: quella del lutto rituale per i morti ogni 40 giorni, che appartiene alla glorificazione sciita del martirio, e il coinvolgimento del clero; quella di sinistra, con gli slogan antimperialisti e il coinvolgimento degli intellettuali. Nessuna di queste tendenze ideologiche è riscontrabile negli attuali sommovimenti arabi, che sembrano soprattutto una protesta contro l’autocrazia, il dispotismo, la soppressione dei diritti civili e la corruzione, ma che non mostrano chiari obiettivi ideologici.



Il regime iraniano è riuscito realmente a mettere a tacere l’Onda verde, o ritiene che il movimento di protesta tornerà a farsi sentire?

Il movimento riformista del 2009 è stata una vasta mobilitazione che ha diviso la società iraniana, con esponenti anche importanti del clero che hanno protestato contro i brogli elettorali e l’estrema violenza della repressione della milizia. Il «movimento verde» manca di una chiara ideologia e di leadership, ma non vi è nessuna ragione perché si fermi fintanto che continua il regime dispotico e il sequestro del potere politico. Per gli oppositori, ogni occasione è valida per dimostrare: il regime approva la rivolta egiziana? Loro chiedono libertà e diritti civili per gli iraniani. Il regime appoggia i diritti democratici? Loro chiedono pluralismo politico e libertà per i partiti di opposizione…



Da un punto di vista etnico gli iraniani sono molto diversi dagli arabi. Può essere una spiegazione del motivo per cui la “primavera araba” finora non ha contagiato l’Iran?

Uno dei maggiori mezzi di comunicazione a disposizione delle rivoluzioni arabe è la televisione di Al-Jazeera, che fornisce informazioni dirette in arabo e diffonde notizie e foto sulle rivolte. Per gli iraniani, che hanno accesso alla BBC, a Voice of America o a canali persiani alternativi che trasmettono dall’Europa o dall’America, Al-Jazeera risulta meno attraente e non ha lo stesso impatto.

La democrazia può produrre effetti molto diversi dove tutti i musulmani sono di religione sunnita, come in Egitto, e dove ci sono anche gli sciiti, come in Iran e Siria?

La democrazia è un concetto astratto. Ciò che viene rifiutato è il dominio di minoranze nei loro Paesi e il governo di famiglie dispotiche e corrotte (Ben Ali, Mubarak, Gheddafi, Assad), ma manca una visione chiara del pluralismo politico, non si sa cosa vuol dire libertà di pensiero e alternanza al governo. L’obiettivo di molte rivolte popolari oggi (come in Iran nel 1979) sembra essere una sorta di unanimismo, la ricerca di una sovranità diffusa, più che diritti politici come si può sperimentare in democrazie più antiche.

Anche in Iraq gli sciiti sono la maggioranza…

L’Iraq non è un buon modello: anche se teoricamente i diritti politici e la libertà vengono rispettati, la direzione è verso il consolidamento delle comunità: i curdi lottano nel nord per l’autonomia su base etnica, gli sciiti cercano di consolidare il potere recentemente acquisito a Baghdad, i sunniti combattono per difendere o recuperare la loro leadership. Dov’è l’ideologia, dove sono gli ideali democratici? Le minoranze, obbligate a barricarsi, pagano il costo elevato di questa mancanza di principi democratici.

Quindi la situazione dei cristiani in Iraq, usata strumentalmente per affermare che la democrazia non è adatta ai Paesi arabi, può essere considerata come la conseguenza della divisione tra sciiti, sunniti e curdi, che non esiste in altri Stati come l’Egitto?

Non penso. Il problema per i cristiani iracheni, in qualche modo simile a quanto accadeva con cristiani e Bahai in Iran prima della rivoluzione, è la loro preferenza per un regime repressivo, ma laico, piuttosto che per un confronto senza dubbio rischioso con le comunità musulmane. Lo scià ha talvolta usato questa carta per dimostrare quanto “moderno” fosse il suo governo. Anche Saddam ha usato i cristiani, molto più numerosi in Iraq, come uno strumento per mantenere il potere del Baath sulla maggioranza sciita. Uno dei principali ministri del suo governo era il cristiano Tarek Aziz, anche se costui, pur essendo nato cristiano caldeo, di fatto non aveva particolari convinzioni o impegno cristiani. La cosa peggiore per i cristiani in Iraq è stato lo stile da Crociata dato all’invasione dagli americani, con i missionari evangelici che diffondevano massicciamente la Bibbia in arabo tra la popolazione: cosa avrebbe potuto dimostrare più chiaramente la mancanza di integrazione dei cristiani nell’unità nazionale?

Nella religione sciita l’autorità del clero è più importante che in quella sunnita. Quali possono essere le conseguenze politiche di questa differenza religiosa?

Innanzitutto, i fattori religiosi sembrano meno importanti che nel 1978. Dopo il collasso del dispotismo occidentalizzato, ci possiamo attendere un ritorno delle vecchie élites, tra cui gli ulema. Il clero sciita si è dimostrato un elemento di stabilità sociale, aiutando a evitare la rottura della solidarietà. Cosa accadrebbe se leader islamici radicali sottraessero la guida alle élites tradizionali? Ci si potrebbe aspettare una più forte resistenza contro questa radicalizzazione da parte dei giovani istruiti che pensano a una società laica, ma cosa farebbe la massa se dovesse scegliere tra un sistema occidentalizzato e un modello di vita orientato più tradizionalmente?

In una precedente intervista lei ha dichiarato: “Dobbiamo fare attenzione a non supportare dei tentativi dall’esterno che possono solo delegittimare il movimento” di protesta in Iran. Pensa lo stesso anche per il sostegno fornito dall’Occidente ai ribelli in Libia?

Gheddafi ovviamente usa questo intervento per delegittimare la rivolta contro il suo regime. Se i Paesi arabi, in particolare Tunisia ed Egitto, dessero un appoggio maggiore, questa solidarietà sarebbe meglio accettata e sarebbe meno dannosa per la costruzione politica del futuro.

Che cosa ne pensa del sostegno dato da Ahmadinejad ai manifestanti del Bahrain che chiedono democrazia?

Ahmadinejad utilizza i legami tradizionali della solidarietà religiosa e fa attenzione a non dare l’impressione che l’Iran voglia sottrarre questo pezzo di terra, araba, alla sovranità araba. La parola “democrazia” è chiaramente uno strumento di propaganda: in questo caso è giustificata dal trattamento non equo della maggioranza sciita da parte della monarchia sunnita. La posta può essere anche più ambiziosa, e cioè la destabilizzazione della Arabia Saudita, dove la democrazia è assente, le donne non hanno diritti e gli sciiti sono oppressi.

(Pietro Vernizzi)