Nonostante le reiterate promesse di liberalizzazione politica accompagnate da una dura repressione militare nei confronti dei manifestanti, a circa un mese dal suo scoppio, la rivoluzione siriana non soltanto non è stata placata ma sembra continuare ineluttabilmente a espandersi.
Questo bilancio dovrebbe quantomeno suggerire al regime che la strategia della carota e del bastone non solo non funziona, ma rischia anzi di far erodere il rapporto di forza tra élites governative e cittadini fino a un punto di non ritorno. Perché se l’obiettivo del governo siriano è stato finora quello di fare buon viso a cattivo gioco, facendo cioè apparenti concessioni e nel frattempo utilizzare la violenza in modo in scrupoloso – tanto per ricordare al suo popolo qual è la sua vera forza -, è anche vero che il carattere inedito di queste intifade arabe sta proprio nella rottura di quell’equilibrio basato sulla paura con cui i vari regimi arabi (e quello siriano in primis) hanno mantenuto il potere per svariati decenni.
Pur di fronte ad un esercito sanguinario di 350mila uomini che, diversamente da quello egiziano o tunisino, rimarrà fedele al regime, la gente infatti continua a far ingigantire la rivolta, mentre la leggerezza con cui l’esercito da un mese spara direttamente sui manifestanti per disperdere cortei e sit-in non fa che far montare la collera delle piazze. Le manifestazioni organizzate tre giorni fa dagli studenti della facoltà di medicina di Damasco hanno chiesto infatti esplicitamente “la fine del massacro”. Questo in realtà è un punto fondamentale: in assenza di alcuna forma di legittimità politica può un regime reggersi esclusivamente sulla sua forza repressiva?
Se si va a guardare nella storia di tutti i più duri totalitarismi una forma di rispondenza tra governanti e governati c’è sempre stata. Ed è esattamente questa la chiave che il regime non comprende.



Impegnato in questi ultimi giorni nel curare l’aspetto cosmetico di riforme vacue, apprestandosi per esempio ad abolire la legge d’urgenza in vigore da ben 48 anni e ad emanare contemporaneamente una legge regolativa che impone a chiunque voglia organizzare un raduno di protesta di chiedere il permesso alla famiglia Assad, il regime non fa altro che mostrare il suo carattere vetusto.
E infatti quello che in realtà sembra costituire il vero ostacolo alle riforme non è il volto simbolo del regime, Bashar al Assad, quanto la retroguardia, già al potere dai tempi di Hafez e che ha rappresentato un freno durissimo ad ogni tentativo di riforma intrapreso da Bashar al Assad. Se una reale liberalizzazione non viene messa in pratica, infatti, il paese rischia di implodere economicamente e frammentarsi lungo le linee della sua pluralità: la popolazione siriana è infatti estremamente eterogenea confessionalmente ed etnicamente e ogni componente difende degli interessi particolari.
Inoltre se il regime siriano dovesse implodere il vero rischio è che la situazione regionale precipiti in un caos infernale. Se c’è infatti un ambito in cui la Siria può rivendicare una buona fonte di legittimità politica è la sua politica estera, tanto al livello interno quanto al livello esterno. La politica di potenza siriana infatti piace alla sua popolazione e la sua natura prettamente realista in realtà è quella che fino ad ora ha garantito una stabilità sul piano regionale. È per questo che in effetti la caduta del regime siriano è la meno auspicata. Tuttavia è solo grazie ad una reale svolta verso la democrazia, abolendo davvero la legge d’urgenza e l’interdizione sulla formazione di nuovi partiti politici, che il regime potrebbe riconquistare una nuova forma di legittimità interna. L’uso incondizionato della forza non può che far stagnare la situazione e in ogni caso tutti sanno bene che non potrà durare a lungo.



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