«Con la Siria le rivolte arabe hanno raggiunto il terzo livello, dopo quanto avvenuto in Tunisia ed Egitto prima e in Libia dopo. Ora si rischia davvero il salto nel buio, con conseguenze simili a quanto avvenuto in Iraq». A spiegarlo a Ilsussidiario.net è l’inviato di Avvenire, Luigi Geninazzi, in seguito alla feroce repressione di Bashar al Assad in Siria, dove solo venerdì si sono contati 112 morti e ieri altri 13. Per Geninazzi infatti la maggioranza sunnita, a lungo repressa da Assad, potrebbe ribellarsi alla minoranza alawita, la setta musulmana cui appartiene il presidente. E questo rischierebbe di creare una situazione molto simile a quella irakena, con gli scontri tra sciiti e sunniti e i cristiani che finiscono per essere «il vaso di coccio in mezzo ai due vasi di ferro».



Geninazzi, come valuta quello che sta avvenendo in Siria in queste ore?

È in atto una durissima repressione, dalle immagini trasmesse dalle emittenti arabe si vede della gente che tira dei sassi, cui i militari rispondono sparando ad altezza d’uomo. Senz’altro quindi la reazione di Assad è spietata, come del resto è nella tradizione della sua famiglia. Ma quello che più conta è che il caso siriano è il terzo livello delle rivolte arabe. Prima di tutto perché sul piano interno Assad può contare sulla fedeltà assoluta dell’esercito, a differenza per esempio di quanto è avvenuto in Egitto. Il secondo elemento è che le condanne dell’Occidente sono state decisive contro gli «amici» Ben Alì o Mubarak. Hanno invece funzionato molto meno contro Gheddafi, che negli ultimi anni era venuto a patti con Europa e Stati Uniti più per ragioni di interesse e d’affare, che non per convinzione. Ma contro un «nemico» come Assad, l’Occidente non sa che cosa fare.



In che senso?

Non dimentichiamoci che la Siria ai tempi di Bush era uno dei Paesi del cosiddetto «asse del male». E quando la rivolta contagia questi Paesi, si raggiunge il terzo livello, dove tutto è molto più complicato. La Siria è sempre stata di ostacolo alla pace con Israele, è alleata con il nemico numero uno, cioè l’Iran di Ahmadinejad, sostiene Hamas a Gaza e gli Hezbollah in Libano. Ma quando prendiamo in considerazione le convulsioni siriane, dobbiamo anche tenere conto delle preoccupazioni della forte minoranza cristiana. I cristiani siriani, più che non i copti sotto Mubarak o i cristiani durante il regime di Saddam Hussein, vedono nella dinastia di Assad una garanzia di tolleranza e di vivibilità per la loro comunità che, nel caso si aprisse una prospettiva drammatica di guerra civile e di ascesa del potere sunnita radicale, non ci sarebbe più.



Ma che cosa ha la Siria di diverso dall’Egitto?

Anche in Egitto purtroppo le grandi speranze che c’erano nella rivoluzione di piazza Tahrir oggi non ci sono più. Perché quell’avanguardia che ha portato centinaia di migliaia di persone in piazza, oggi sembra in difficoltà. La cosiddetta rivoluzione del 25 gennaio attraversa una fase difficile perché si fanno sentire sempre di più le voci dei radicali islamici. E non parlo dei Fratelli musulmani, bensì dei salafiti, che vogliono imporre con la violenza l’applicazione assolutamente integrale della legge coranica. Quindi anche lì la situazione sta diventando critica.

E in Siria com’è la situazione?

In Siria c’è grande paura di finire come l’Iraq. Il clan familiare del dittatore Assad, che si regge sulla repressione, rappresenta una piccolissima minoranza, quella alawita, in un Paese a stragrande maggioranza sunnita. Proprio per questo motivo, Assad ha sempre protetto le altre minoranze religiose. Ha accolto per esempio i cristiani che scappavano dall’Iraq, come cento anni fa la Siria aveva accolto i cristiani armeni che scappavano dalla repressione turca. Quindi si può ben capire il punto di vista dei cristiani.

Intende dire che spera che Assad non cada?

Noi cristiani d’occidente dobbiamo tenere presenti tutti i fattori in gioco, e non solo una parte. La realtà è che c’è un regime dittatoriale che è contestato da moltissima gente. E dobbiamo tenere presenti non solo i cristiani siriani, ma anche le comunità vicine. Per esempio i cristiani del Libano, l’unico Paese arabo dove i cristiani fino a poco tempo fa rappresentavano la maggioranza, non sarebbero così dispiaciuti della caduta del regime di Assad. Quindi la partita è molto complicata e intricata.

Ma Assad ha davvero difeso i cristiani, o lo ha fatto solo a parole?

Non dico che i rapporti siano idilliaci. Io però mi ero recato in Siria ai tempi della visita di Giovanni Paoli II, nel 2001, quando il giovane Assad aveva appena preso il potere. E posso testimoniare di avere trovato un clima di tolleranza reciproca che all’epoca era molto importante. Oggi invece la Siria rischia il salto nel buio. Nessuno sa che cosa vorrà la maggioranza sunnita e quali forme potrà prendere nelle sue derive più radicali. Questo scenario ricorda quello irakeno del dopo Saddam, quando i sunniti si sono ribellati agli sciiti che volevano prendere il potere e i cristiani hanno fatto la fine del vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro.

C’è però una differenza fondamentale. In Iraq c’è una maggioranza sciita, mentre in Siria invece è sunnita…

Lo schema però è identico. Dopo la caduta di Saddam i sunniti si sono sentiti schiacciati da una comunità prima di allora repressa come quella sciita, e si è scatenata la guerra civile. La stessa cosa potrebbe ripetersi anche in Siria, perché i sunniti potrebbero sentirsi in dovere di compiere delle vendette contro chi per 50 anni li ha sempre tenuti ai margini e repressi, cioè sciiti e alawiti.

Quali effetti produrrebbe la caduta di Assad sull’intero Medio Oriente?

Il punto più delicato è proprio questo ruolo geostrategico, e qui il problema è la strettissima alleanza con l’Iran. In apparenza, l’Occidente ha tutto l’interesse a far cadere Assad, alleato con un nostro nemico come Ahmadinejad. In realtà non si sa che cosa può succedere dopo. E qui i giochi che si aprono sono molti. Anche la Turchia per esempio sta giocando un ruolo molto importante, vuole avere un ruolo di mediatore nella stagione delle primavere arabe.

Come valuta invece la situazione in Libia dopo la caduta di Misurata?

Gheddafi sul piano militare si trova in difficoltà, se è vero, come dicono gli analisti americani, che l’esercito ha perso il 40% dei suoi potenziali. Siamo davanti a una guerra lunga, anche perché da un punto di vista militare la Nato non sembra avere schiacciato l’acceleratore. Continuano gli attacchi, i raid aerei, i danni collaterali. Ma la coalizione dei volenterosi non è poi così volonterosa. Sul piano politico siamo davanti a un grande empasse, con gli Stati Uniti che stanno dietro le quinte, inviano droni ma non si giocano totalmente come in altre situazioni. Manca una strategia politica, l’indebolimento militare di Gheddafi non produrrà quindi grandi effetti nel breve periodo.

(Pietro Vernizzi)