All’origine della scelta italiana di bombardare Tripoli c’è una precisa richiesta del presidente Obama a Silvio Berlusconi. Posto di fronte all’aut aut americano, il Cavaliere ha deciso di seguire la linea dettata dallo storico alleato e di inviare i cacciabombardieri in Libia. A sottolinearlo è Vittorio Emanuele Parsi, editorialista de La Stampa e docente di Relazioni internazionali nell’Università Cattolica. Mentre il dibattito sui raid italiani si infiamma, Ilsussidiario.net ha intervistato il professor Parsi, per chiedergli se la scelta di Berlusconi nasca dall’essere ormai «ostaggio» della politica americana.
Professore, quali sono gli obiettivi politici della scelta di Berlusconi?
L’obiettivo è quello di fare parte a tutti gli effetti della coalizione dei volonterosi. Quella di Berlusconi è la risposta a una precisa richiesta giunta da parte di Nato e di Stati Uniti: l’Italia stavolta non potrà ripetere la posizione tenuta ai tempi della guerra in Kosovo dal governo D’Alema. All’epoca le ambiguità dell’esecutivo di centrosinistra suscitarono i malumori, per quanto velati, da parte degli Stati Uniti. Nel caso della Libia, a maggior ragione, proprio perché gli Usa sono non direttamente coinvolti, l’Italia è stata posta di fronte a una scelta netta. E come è comprensibile, partecipando a pieno titolo alla coalizione il governo italiano si augura anche che il suo peso negoziale aumenti. Nel momento in cui oltre alle basi militari, l’Italia mette a disposizione anche i suoi caccia per bombardare Tripoli, il valore politico di quelle basi si accresce in modo esponenziale.
Ma in questo modo Berlusconi non dimostra di essere «ostaggio» di Sarkozy e di Obama?
Non è stata la sola Francia, ma la Nato e gli Stati Uniti ad avere messo in evidenza un atteggiamento ambiguo da parte dell’Italia. Una volta che il nostro Paese è entrato nella coalizione dei volonterosi, era infatti giusto farne parte a tutti gli effetti fin dall’inizio. L’Italia in realtà può dire solo ora di avere raggiunto questo livello di impegno. Si tratta comunque di una scelta che rimedia a un errore iniziale, e questo è pur sempre un fatto positivo.
Ma fino a che punto l’Italia ha davvero interesse a bombardare Tripoli?
Ormai i rapporti tra l’Italia e Gheddafi sono completamente logorati. Se il Colonnello dovesse restare al potere, l’Italia dovrà dire addio a tutti i suoi interessi nella Jamahiriya. Mentre se prevarranno i ribelli di Bengasi, tutti i trattati politici ed economici che l’Italia aveva in precedenza con la Libia saranno confermati. Quindi è nostro interesse, anche dal punto di vista economico, che la guerra in Libia si concluda il prima possibile in modo vittorioso.
Per Frattini, l’intervento italiano serve anche a preservare l’unità Ue. E’ davvero così?
Non ci sono dubbi sul fatto che Frattini abbia ragione. O meglio, diciamo piuttosto che la scelta italiana rende meno evidente, meno stridente e meno palese la disarmonia che c’è stata tra Italia e Francia sulla questione degli immigrati. E’ quindi una scelta che va nella direzione di una migliore armonizzazione della politica europea. Quando su La Stampa ho parlato di una «dichiarazione di resa dell’Europa», mi riferivo allo stato dell’arte di una settimana fa. La nuova iniziativa italiana va proprio nella direzione di mutare la situazione descritta nel mio articolo.
Sarkozy assicura che non invierà truppe di terra in Libia. E’ davvero credibile?
Nessuno, almeno nella fase attuale, può escludere la necessità di inviare delle truppe di terra in Libia. Per ora si preferisce non farlo, perché è una scelta problematica. Ma l’invio degli istruttori italiani a Bengasi è un piccolo passo che va proprio in questa direzione. E’ inutile infatti inviare i caccia in Libia senza avere truppe sul terreno che inquadrino i bersagli e controllino la loro posizione fino a quando sono colpiti dalle bombe. Le tecniche moderne di bombardamento, proprio per cercare di limitare le vittime e i danni collaterali, richiedono operatori a terra con questa delicata funzione. Questo ruolo non può essere assunto dagli insorti nemmeno se li addestriamo, ma deve essere ricoperto da specialisti occidentali.
Perché nessuno, tranne l’Unione africana, ha preso in considerazione l’ipotesi di una divisione in due della Libia?
Le sole separazioni di nazioni avvenute negli ultimi 20 anni sono state la conseguenza della caduta dell’impero sovietico. Ma a parte l’est europeo, quasi in nessuna altra parte del mondo si sono toccati i confini, che rappresentano una sorta di tabù. E lo sono a maggior ragione laddove sono estremamente arbitrari e fragili. Tentare di spostarli può essere molto pericoloso. La proposta dell’Unione africana mira inoltre sostanzialmente a mantenere al potere Gheddafi. L’Italia invece da un certo momento in poi ha deciso che il Colonnello doveva essere rimosso, anche perché non abbiamo alcun interesse a lasciare Gheddafi al potere.
Gheddafi ha ancora l’appoggio delle tribù della Tripolitania?
E’ una domanda cui nessuna persona onesta può dare una risposta sincera. Se lei avesse fatto questa domanda due o tre mesi fa, quasi tutti gli osservatori avrebbero risposto senza alcuna esitazione: «Gheddafi è saldo al potere». E lo stesso lo si poteva dire di Ben Alì, di Mubarak e di Assad. Oggi non è più così. E’ come guardare un’immagine in movimento: si vede qualcosa, ma questo non coincide completamente con la vera fisionomia della realtà.
Ma finché anche Tripoli non si ribella, è giusto e ragionevole bombardare il regime?
E’ giusto, perché è una scelta che è stata legittimata da un voto delle Nazioni Unite che ha consentito l’intervento. Ed è ragionevole, perché non intervenire militarmente significherebbe giustificare la propaganda islamista radicale e vicina ad Al Qaeda, secondo cui gli occidentali sostengono i tiranni che impediscono lo sviluppo dei popoli arabi. Un’accusa di cui dobbiamo liberarci una volta per tutte, anche a costo di bombardare qualcuno. Non compiere nessuna azione sarebbe stato infinitamente peggio di un’azione, pur con molti limiti.
Ma allora perché l’Occidente non fa niente per Siria e Bahrein, e non ha mosso un dito contro Mubarak?
In primo luogo, per un fatto evidente di prossimità geografica: la Libia è proprio di fronte a noi, sull’altra sponda del Mediterraneo, a poche miglia da Lampedusa. Inoltre Gheddafi è rimasto isolato nel giro di poco tempo perché la Libia non esercita un ruolo sull’intera regione. Proprio l’esatto contrario di Siria e Bahrein. Damasco infatti è il perno su cui si basa l’equilibrio di Libano, Israele e Giordania. Chi tocca Assad, quindi, resta inevitabilmente invischiato nel conflitto arabo-israeliano. Mentre intervenire nel Bahrein significa modificare l’equilibrio di forze tra Iran e Arabia Saudita.
(Pietro Vernizzi)