Mentre il bilancio delle vittime si aggrava (sono circa 400 i morti dall’inizio della rivoluzione siriana) le immagini dei carri armati che entrano direttamente nella città di Deraa sparando sulle case rendono ormai esplicita la strategia del regime: Bashar al Assad ha deciso che massacrerà il suo popolo fino a quando le proteste non soffocheranno.
Ad un dittatore arabo che, in barba alla forma repubblicana del suo stato, ha praticamente ricevuto il potere per via ereditaria, trascinando fino al quarantottesimo anno la tenuta in vigore della legge d’emergenza e l’interdizione di ogni formazione politica alternativa a quella del partito Ba’ath, probabilmente sfugge del tutto quanto insanabile sia diventata la frattura tra lo spazio del potere e la sua legittimazione. Al livello interno quanto esterno. Poco deve essere servito al presidente siriano l’aver respirato un po’ di “aria liberale” – almeno per il periodo universitario – e poco importa, oramai, che a ordinare questo massacro sia stato lui in persona o la sua retroguardia. Perché, se da un lato è difficile prevedere quale possa essere la sorte ultima del regime, dall’altro appare chiaramente che, alienatosi ormai ogni forma di supporto legittimo, l’unico mezzo che resta ad Assad per continuare a governare sul suo popolo è l’uso indiscriminato della coercizione.
Il punto è delicato e merita di essere precisato: la violenza ha sempre costituito un fondamentale strumento di potere per il regime siriano, ma è la sua recente elezione all’esclusività che rende ogni potenziale equilibrio futuro tra governanti e governati estremamente difficile. Seppur dovesse sopravvivere all’intifada, il regime ne uscirebbe comunque più fragile, legittimato praticamente solo da se stesso e dalla propria forza coercitiva mentre l’inversione del cammino verso le libertà personali – che pure era stato pallidamente intrapreso – sarebbe drastica.
Ma non c’è solo questo. Reprimendo così violentemente la rivoluzione, la Siria si è giocata del tutto la sua collocazione e legittimazione internazionale. I governi occidentali hanno finora fatto finta di non accorgersi di cosa stava succedendo in Siria, sperando di trovare ancora un margine per non essere costretti a ostracizzare del tutto Bashar al Assad dal giro dei capi di Stato frequentabili.



Anche se l’ambiguità del regime siriano, alleato strategico dell’Iran, non aggradava i governi occidentali, la ripresa dei rapporti con gli Stati Uniti, sanciti dal ritorno nel 2010 dell’ambasciatore americano a Damasco (dopo la crisi del 2005 quando il regime era stato accusato di essere il mandante dell’omicidio dell’ex premier libanese Rafic Hariri) e la distensione diplomatica con l’Unione europea, soprattutto dopo il lancio dell’Unione per il Mediterraneo a Parigi nel 2008, tradivano l’impossibilità di bypassare Damasco, perché attore chiave di tutto l’equilibrio mediorientale.
Dalla Siria poi dipende direttamente la stabilità politica del Libano, paese in cui i siriani sono stati presenti con le proprie truppe dal 1975 al 2005 e che continuano a tenere in scacco mantenendo un vero e proprio rapporto clientelare con il gruppo parlamentare dell’8 marzo, capeggiato da Hezbollah (i documenti di Wikileaks hanno confermato che la Siria fornisce armi e denaro al Partito di Dio). Dopo il massacro con cui il regime ha risposto alle richieste di libertà e diritti da parte del suo popolo, tuttavia, neppure un’ardita realpolitik potrà più ripristinare velocemente la posizione della Siria nel panorama internazionale. E infatti l’ombra delle sanzioni da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è già stata invocata da più parti, e corollata da una ferma condanna della Lega Araba nei confronti di Assad.
Ma in realtà l’esitazione è figlia di una paura molto concreta: se il regime implodesse, infatti, il paese si fratturerebbe al suo interno senza escludere il rischio di guerra civile e di ricadute su tutto il Medio Oriente, a cominciare dalla vicina Turchia. Ma con questa condotta il giovane dittatore siriano non fa che cadere sempre di più nell’isolazionismo; e la storia del tiranno che diventa troppo  solo ha, in fondo, sempre lo stesso finale.

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