Mentre le rivolte contro il regime di Bashar al Assad non sembrano farsi intimidire dalla violenta repressione con cui l’esercito è stato chiamato a rispondere, c’è una singolare voce all’interno della società siriana che negli ultimi giorni ha cercato quanta più possibile visibilità. È la voce dei cristiani di Siria, la cui posizione a favore del governo di Assad e del piano di riforme annunciate non ha eguali in quanto a perentorietà e chiarezza.
In un’intervista pubblicata su queste pagine, il Patriarca dei cristiani melchiti Gregorio III Laham ha definito la Siria un paese “laico, credente e aperto” e ha elogiato l’apertura che in questi ultimi anni il regime avrebbe adottato nel riformare il paese. Al di là dell’evidente difficoltà di accogliere un giudizio così positivo nei confronti di uno dei regimi più autoritari del mondo arabo, le parole di Gregorio III, non differenti da quelle espresse da tutte le autorità ecclesiastiche del paese, sono in realtà la spia del timore che la rivoluzione siriana possa rappresentare l’ultima pagina di quella “questione dei cristiani d’Oriente” che negli ultimi anni è stata così drammaticamente rinvigorita da un crescendo di persecuzioni contro le minoranze cristiane nei vari paesi arabi.
È stata soprattutto la caduta del regime di Saddam Hussein ad innescare quest’ondata di violenze: basti pensare che in Iraq i cristiani erano circa 800mila prima del 2003 e adesso non sono più di 400mila. Il montare di queste repressioni, in un momento di anti-occidentalismo galoppante in tutto il mondo arabo, è stato probabilmente nutrito sul piano ideologico da un’associazione – per quanto antistorica – tra cristianesimo e Occidente; quest’ultima ignora palesemente il fatto che le comunità cristiane esistono sui territori orientali sin dai tempi di Gesù e che, dunque, la loro storia poco si incrocia con quella occidentale. Infatti la sua strumentalizzazione ideologica nella jihad anti-imperialistica sembra stia diventando sempre più consistente, come ci hanno mostrato, oltre al dramma iracheno, i recenti atti di violenza in Nigeria, l’esplosione dell’autobomba nella chiesa copta di Alessandria d’Egitto nella notte dello scorso capodanno e il moltiplicarsi delle violenze contro i cristiani nell’Egitto post-Mubarak.
Perché dunque il discorso dei cristiani siriani è così ferventemente a favore del regime? C’è sicuramente una tradizione storica che fa della Siria un baluardo della tolleranza nei confronti dei cristiani. È anzi proprio in questo paese che le comuni radici lontane di islam e cristianesimo sembrano trovare la loro glorificazione: nella moschea degli Ommayadi di Damasco è sepolto – si dice – Giovanni Battista e qui si trovano i più importanti centri di pellegrinaggio cristiano della regione. I vecchi emiri di questo paese, inoltre, hanno sempre accolto i cristiani provenienti dal resto del mondo arabo: gli armeni che sfuggivano al genocidio turco, per esempio, si diressero in larga parte in questa terra; Fakkredine II strinse poi un’alleanza così forte con i maroniti da aiutarli a porre le basi, sui monti tra Damasco e la valle della Bekka, a quello che poi diventò il Libano moderno, lo stato decisamente più cristiano del mondo arabo.
Ma veniamo al regime siriano attuale. Esso è – come dice il patriarca Gregorio III – un paese fortemente basato sulla laicità, principio che, d’altra parte, è inscritto nell’ideologia del partito Baath, il cui fondatore, Michel Aflaq era, tra l’altro, un siriano di confessione cattolica. In Siria, come nell’Iraq di Saddam Hussein, come nell’Egitto di Mubarak, i cristiani sono sempre stati protetti dal potere anche in funzione di bilanciamento delle forze islamiste che hanno sempre rappresentato la più forte minaccia per i regimi militari arabi nazionalisti e socialisti.
L’autoritarismo di questi paesi ha, dunque, usato le comunità cristiane per accrescere la sua base di legittimità contestata dalle forze islamiche rivendicatrici di uno stato a carattere religioso. Non dimentichiamo che il primo attore a esprimersi pubblicamente a favore di Mubarak nel momento dell’esplosione della rivoluzione egiziana è stato proprio la massima autorità della chiesa copta, chiarendo subito quale fosse il peso dell’alleanza tra questa istituzione religiosa e il vecchio regime. E non a caso la caduta del rais egiziano ha liberato, come sollevando il coperchio del vaso di Pandora, le fila già latenti di una violenta lotta religiosa. In Siria i Fratelli Musulmani non sono meno potenti che in Egitto, forse solo meglio “tenuti a freno” se pensiamo, per esempio, che nel 1982 ad Hama Hafez al Assad, padre di Bashar, diede ordine di lanciare razzi su un’insurrezione musulmana, provocando la morte di oltre 20mila persone in un sol giorno.
In Siria, inoltre, l’alleanza tra autorità e chiese cristiane è declinata sul principio della associazione tra due minoranze religiose all’interno del paese. Il potere politico siriano è infatti detenuto dal 1962 dalla setta degli alawiti, distaccatasi dallo sciismo e mai davvero riconosciuta dalle altre comunità musulmane. Il legame tra i cristiani e gli alawiti in Siria, è dunque fortemente strategico per un regime la cui legittimità non è rivendicabile neppure sul piano demografico-religioso. Non è un caso, infatti, che la Siria si sia offerta dal 2003 come destinazione privilegiata del grande esodo dei cristiani iracheni, offrendo loro un facile inserimento sociale.
Se Bahar al Assad dovesse cadere è molto probabile che l’opposizione islamica possa guadagnare un considerevole peso politico ed è altrettanto probabile che la vague di odio religioso anti-cristiano possa agganciare anche la Siria, minacciando gravemente quel milione di cristiani che vive da sempre serenamente in questo paese. Ed è proprio questo che i cristiani della Siria temono quando difendono Bashar al Assad.