Il Giappone versa in mare tonnellate di acqua radioattiva. Quali effetti sortirà l’operazione? Lo abbiamo chiesto a Francesco Regoli, professore di Eco-tossicologia.
In Giappone, i tecnici dalla centrale di Fukushima, hanno iniziato a riversare in mare 11.500 tonnellate di acqua radioattiva, quella utilizzata per raffreddare i reattori danneggiati dallo tsunami dell’11 marzo e rimasta contaminata. La Tepco, l’azienda elettrica che gestisce l’impianto, ne ha finora versate 3.430 tonnellate. Il livello di radioattività del liquido è di 100 volte superiore al consentito, ma il ministro dell’industria giapponese Banri Kaiedam assicura che non ci sarà alcun rischio per la salute della popolazione. Anzi, l’operazione avrebbe, secondo il ministro, lo scopo di preservare dai rischi chi vive nei pressi dell’impianto. Rischi che si trasferirebbero alla fauna ittica. In termini di effetti immediati e, nel futuro, di mutazioni. E, probabilmente, nel tempo, dai pesci e dagli organismi che abitano il fondo marino, all’uomo.
Il metodo utilizzato dalla Temco, e approvato dal governo, sta suscitando non poche apprensioni in chi, profanamente, apprende la notizia del riversamento in mare di liquido contaminato. Esiste la possibilità che gli effetti della contaminazione arrivino fino a noi? E siamo sicuri che l’iniziativa non aumenti i pericoli per la popolazione locale? IlSussidiario.net ha interpellato il professor Francesco Regoli, professore di Eco-tossicologia e di Rischio biologico ed ecologico alla facoltà di Scienze dell’Università politecnica della Marche, che ha chiarito alcuni punti fondamentali della vicenda. Precisando, anzitutto, che il motivo per cui i tecnici riversano l’acqua contaminata in mare, «non è tanto quello di salvaguardare la popolazione, quanto legato alla necessità di liberarsi in qualche modo di quest’acqua usata per il raffreddamento».
Di certo, «la situazione è preoccupante», ma, allo stato attuale, «gli scenari previsti non sono supportati da un’adeguata conoscenza del fenomeno». Il professore si spiega meglio: «Ad esempio non sappiamo quali tipi di isotopi siano prevalenti. E gli isotipi differenti hanno effetti nel tempo molti diversi. Basti considerare che lo iodio 131 ha una vita media di 8 giorni, lo stronzio e il celsio 137 di 28-30 anni, il plutonio di 24mila anni». Altro elemento da tenere in considerazione, la concentrazione. «Diluire la stessa quantità di veleno in 100 o in 1000 litri d’acqua di mare è cosa ben diversa». Il fatto è che si tatta di informazioni che, al momento, non sono disponibili se non agli addetti ai lavori. «Temo che per un po’ non potremo avere dati molto precisi». Il problema, in realtà, non è quindi, tanto il livello di radioattività attuale. «Nel momento in cui cesseranno le immissioni – dice – saranno i sedimenti radioattivi, che sono fonte di trasmissione ad altri organismi, a dover esser analizzati per capire qual è stato l’impatto e il livello di arricchimento radioattivo.
A quel punto sarà necessario capire se è necessario avvalersi di tecniche di bonifica. Ci si dovrà far carico della rimozione e della pulizia di tali sedimenti». Anche sull’ipotesi di mutazioni, poi, commenta: «difficile fare previsioni». In sostanza, è «sbagliato fare dell’allarmismo, quasi impossibile quantificare i rischi. Ma, proprio perché non siamo in grado di quantificarli, la vicenda è da seguire con maggior attenzione». E, sul pericolo che dalle acqua del Giappone, la contaminazione possa giungere alle nostre, non ha dubbi: «posto che possano arrivare attraverso la correnti marine, lo farebbero decisamente diluite. L’acqua, è un elemento transitorio, le sostanze velenose si depositerebbero prima. Per arrivare contaminata, dovrebbe essere contaminato tutto quello che c’è prima. Parliamo dell’intero oceano».