Il potente motore della spinta all’esodo di giovani tunisini verso la vicinissima e ben conosciuta Italia è un dato di fatto tanto pesante quanto incontrovertibile: il reddito medio pro capite annuo del nostro Paese secondo i più recenti dati disponibili, 35.435 dollari, è pari a circa nove volte quello della Tunisia, 3.852 dollari. Un così forte divario di reddito tra due paesi tanto vicini non è sostenibile. Presto o tardi avrebbe fatto da detonatore a esodi di massa molto difficili da arginare se non si fosse intervenuti per tempo a investire nello sviluppo della Tunisia e del Nord Africa in genere. Per quelli che, come me, lo dicevano e lo scrivevano da molto tempo venire fuori adesso con un bel “l’avevamo detto” non è nemmeno una magra consolazione. È solo un dispiacere. Auguriamoci almeno che nel proverbiale Palazzo se ne prenda spunto per mandare definitivamente in soffitta quelle politiche tutte ispirate alla “concretezza” (intesa come miope priorità assoluta alle urgenze immediate) che poteva magari andare bene negli anni della Guerra fredda, ma che oggi sono disastrosamente anacronistiche; e che poi, in caso di emergenza, impongono quale unica possibile via d’uscita dei “blitz” ad alto livello che nell’immediato possono avere successo, ma a lungo termine sono sempre sterili poiché non stimolano affatto l’amministrazione dello Stato a rimediare alle proprie carenze, ma al contrario la inducono a cullarsi ulteriormente nel suo troppo consueto “qualche santo provvederà…” (che tra l’altro fa torto ai santi).
Quel colossale divario di reddito è una gigantesca molla compressa, pronta a scattare alla prima occasione. Ed è stato questo il caso della fuga da Tunisi lo scorso 14 febbraio del presidente-dittatore Ben Alì, e quindi dell’inizio di una fase di transizione con tutto l’inevitabile sconquasso delle istituzioni tunisine. Chiunque da anni sognava l’esodo senza troppi controlli verso l’Italia e il resto dell’Unione europea, non  appena ha potuto si è messo in viaggio. Ciò che sorprende non è il rapido e ingente riavvio dell’afflusso di immigranti illegali via mare dalla Tunisia verso Lampedusa, che nell’anno precedente si era interrotto, quanto la lentezza con cui il nostro governo ha affrontato la situazione. Sia ben chiaro, come ho già scritto su queste pagine (Il fallimento culturale dietro gli sbarchi di Lampedusa), l’attuale governo ha le sue responsabilità, ma se al suo posto ce ne fosse stato uno di centro-sinistra sarebbe andata anche ben peggio. Per rendersene conto basta andare a vedere che cosa i leader dell’opposizione hanno detto in proposito dall’inizio della crisi del Nord Africa ad oggi.



A questo punto sono necessarie due cose, entrambe urgenti nello stesso modo. Da una parte occorre bloccare con tutta la fermezza necessaria l’esodo dalla Tunisia, che avviene in modo sconsiderato e controproducente per gli stessi immigranti illegali. Ciò può avvenire solo con la collaborazione del governo di Tunisi e con il sostegno tecnico e logistico italiano alla sua polizia e alla sua guardia costiera, il che sta forse avvenendo grazie all’opera un ministro dell’Interno, Roberto Maroni, sorprendentemente incaricato di fungere da ministro degli Esteri parallelo. Dall’altra parte però occorre impegnarsi in programmi credibili di sviluppo condiviso, la cui prima fase potrebbe utilmente consistere in ingenti programmi sul posto di formazione professionale e di assistenza efficace all’avvio di piccole e medie imprese. Le due cose stanno e sono efficaci nella misura in cui entrambe non sono parole ma fatti.
Entrambe però devono purtroppo fare i conti con un medesimo problema: la bassa e spesso bassissima qualità della nostra amministrazione statale, che la gestione della crisi del Nord Africa sta ancora ahimè drammaticamente confermando. Da quanto accade si vede benissimo che niente viene previsto in modo adeguato e tutto viene affrontato estemporaneamente. Per rendersene conto non c’è bisogno di andare a Lampedusa. Basta ad esempio guardare attentamente le immagini fotografiche e televisive che ci giungono dall’isola con quei molti agenti di polizia e militari in uniforme da campagna che, interdetti e con l’aria di non avere precisi ordini, si aggirano tra la folla degli immigranti illegali come fossero dei passanti tra i passanti. La più recente riprova di tale carenza abissale è la questione dell’alloggiamento degli immigranti illegali trasferiti da Lampedusa nel resto del Paese. Le nostre Forze armate dispongono nelle più diverse parti del Paese di aree militari (aeroporti, aree portuali, aree di addestramento), oggi sotto utilizzate o non utilizzate del tutto di cui, trattandosi appunto di aree militari, il governo può disporre come gli pare. Bastava preparare tutto per tempo; ce n’è quanto basta per installarvi delle tendopoli, attrezzate di tutti i dovuti servizi, dotate di tutte le dovute mense, chiuse, controllate e ben vigilate.



Invece ecco che cominciano a sorgere tendopoli carenti di servizi, incontrollate e mal vigilate le quali creeranno solo dei grandi problemi. Poi può darsi pure che la situazione migliori, ma solo più tardi, magari troppo. Frattanto grazie alle Tv italiane – che tutti vedono in Tunisia – la notizia di questa inefficienza, di questa confusione, della facilità con cui si può raggiungere e approdare a Lampedusa, e poi fuggire dalle tendopoli e dagli altri centri di accoglienza in Sicilia e nel resto d’Italia, insieme a dichiarazioni inconsulte come quella di un eventuale premio di ben 1.500 euro a chi dopo esser giunto in Italia accettasse di rientrare, fanno il giro dei porti di partenza dei barconi e convincono ulteriormente altri giovani a buttarsi nell’avventura, pensando che un’occasione così facile per venire in Europa non si presenterà più per molto tempo. Ciò innesca tra l’altro una crescita dell’industria criminale dei passatori di immigranti illegali che a questo punto non esita ad allargare il giro d’affari attirando anche disperati provenienti da paesi più lontani, dal Corno d’Africa, dal golfo di Guinea, perfino dall’Asia.
Il nostro Paese ha urgente bisogno di una profonda riforma generale della Pubblica amministrazione, che in realtà nessun governo ha mai nemmeno provato a mettere sul tappeto perché gli inevitabili sommovimenti del bacino elettorale costituito dai 300mila statali e para-statali di Roma e dalle loro famiglie sono un rischio che nessun partito a base elettorale nazionale vuole correre. Invece la si dovrebbe fare ad ogni costo, pur se doverosamente accompagnandola con un piano di riorientamento verso attività produttive di quella maggior parte dell’economia della grande città laziale che è finora fondata sul consumo distruttivo della rendita politica. Altrimenti, in barba a ogni altra riforma, continueremo a restare fermi, e quindi ad andare indietro.



http://robironza.wordpress.com/