«L’Italia in Libia ha perso un’occasione d’oro. Se Berlusconi avesse bruciato i tempi come la Francia, ma puntando non sui caccia bensì sulla diplomazia, avrebbe potuto imporre la sua agenda politica a tutti i Paesi del Mediterraneo». Ad affermarlo è Luigi Geninazzi, inviato del quotidiano Avvenire, in una fase in cui i raid della Nato sulla Libia si fanno sempre più difficili a causa dell’utilizzo di scudi umani e Gheddafi scrive a Obama «in seguito all’uscita dell’America dall’alleanza coloniale dei crociati contro la Libia».
Geninazzi, alcuni commentatori hanno accusato la diplomazia italiana di essere ondivaga sulla questione libica. Condivide questa critica?
Se noi ricostruiamo quello che è successo dal 17 febbraio scorso, quando è iniziata la rivoluzione in Libia, fino a oggi, l’Italia è sempre risultata in ritardo rispetto alle posizioni prese da altri Paesi occidentali. Dall’iniziale indifferenza alla famosa frase di Berlusconi («non telefono a Gheddafi perché non voglio disturbarlo»), all’ipotesi di un negoziato tra ribelli e il governo libico, fino ad arrivare a Frattini che ha dichiarato nettamente che con Gheddafi non si tratta. Anche il riconoscimento da parte di Roma del Comitato transitorio nazionale di Bengasi era nell’aria, ma ovviamente in ritardo rispetto a Sarkozy che ha bruciato i tempi facendolo il giorno prima dell’inizio dei bombardamenti della coalizione. Un ritardo che dimostra che l’Italia si sta muovendo al seguito degli altri Paesi occidentali, invece di giocare un ruolo originale. Quello che emerge quindi è che l’Italia nel Nord Africa in generale e in Libia in particolare non ha una strategia né un’agenda da proporre e magari da imporre agli altri partner occidentali.
Ma che cosa avrebbe potuto fare invece il nostro governo?
Il giorno stesso dell’inizio della rivoluzione, coincisa con lo scatenamento di una sanguinosa repressione da parte di Gheddafi, Berlusconi avrebbe dovuto iniziare a fare il suo gioco. E contando sulla credibilità di cui il Cavaliere godeva di fronte al Colonnello, avrebbe dovuto recarsi a Tripoli di persona e tentare di convincerlo a cessare il fuoco e aprire trattative con i ribelli. Dal punto di vista mediatico, oltre che politico, avrebbe compiuto un gesto che avrebbe portato grande giovamento. E se Berlusconi fosse riuscito a convincere Gheddafi, poteva dire di fronte a tutto il mondo di essere riuscito a fermare una guerra sanguinosa. Se non ci fosse riuscito, poteva dire comunque di avere provato. Questo ruolo trasversale invece ci è stato scippato da Sarkozy, e adesso è difficile ricalibrarlo. D’altra parte l’Italia in politica estera ha sempre contato molto poco. La Libia poteva essere l’occasione per invertire la tendenza, invece siamo andati avanti come abbiamo sempre fatto.
Intanto Frattini ha parlato di rifornire di armi gli insorti…
Questa è una decisione molto delicata, gli Usa con Obama sono stati molto più cauti, probabilmente lo faranno ma senza dirlo. Azioni di questo tipo è sempre meglio non annunciarle con troppa enfasi, la situazione sul terreno è molto mobile e lo schieramento dei ribelli è tutt’altro che coeso e disciplinato.
Tra la posizione della Francia e quella della Germania, sembra esserci poco spazio per una mediazione italiana…
L’Italia potrebbe comunque avere tuttora un ruolo di primo piano in una strategia di tipo umanitario, con un’attenzione non solo per i profughi, ma anche per i numerosi stranieri che si trovano in Libia. Si sta creando una situazione molto delicata anche in seguito ai raid aerei, che secondo diverse testimonianze hanno iniziato a fare dei danni collaterali. Quindi l’importante è che non si persegua solo un obiettivo di tipo militare, già di per sé difficile da definire, ma si porti avanti un disegno d’insieme dove l’attenzione umanitaria sia al primo posto.
In che senso?
L’intervento ha una giustificazione umanitaria ed è per questo che fin dall’inizio è avvenuto sotto il cappello dell’Onu, bisogna però vedere come evolve ora la situazione, quali obiettivi si riescono a raggiungere, come garantire l’incolumità dei civili e soprattutto fino a che punto possono durare i raid. In Kosovo proseguirono per 78 giorni di seguito, in Libia invece siamo solo agli inizi.
Torniamo al ruolo dell’Italia in politica estera. Anche ai tempi di Moro e Craxi era marginale?
Allora era molto diverso, c’erano delle alleanze ben definite, il muro di Berlino era ancora in piedi. L’Italia da una parte era un Paese occidentale, una democrazia, un Paese alleato degli Stati Uniti, ma dentro questa alleanza l’Italia era riuscita a ritagliarsi un suo ruolo. Non c’era una grande visione strategica, però con Andreotti e soprattutto con Moro e con Craxi, si voleva aprire un dialogo con i Paesi arabi, che uscisse dallo schema che tendeva a dipingerli tutti come protettori del terrorismo. Fino al momento drammatico di Sigonella, dove avvenne un vero e proprio scontro tra l’Italia e gli Stati Uniti.
Che cosa ha indebolito la politica estera italiana?
La situazione è cambiata e l’Italia, e non solo il governo Berlusconi, ma anche quelli Prodi e prima ancora D’Alema, hanno fatto degli accordi con il Nord Africa a corto respiro pensando solo al gas e all’energia. E’ una politica di piccolo cabotaggio che abbiamo sempre seguito. Adesso davanti al vento nuovo della protesta dal basso, che dallo Yemen alla Siria sta scuotendo tutto il mondo arabo, i nostri schemi sono saltati e ci ritroviamo senza più certezze. In Libia soprattutto, dove Gheddafi rappresentava un dittatore terrorista, che si era però riconvertito anche se per interesse all’amicizia con l’Occidente.
Quanto pesano le divisioni interne?
La divisione che pesa di più sono le perplessità della Lega, che ha una visione tutta sua non solo sul problema dell’immigrazione, ma anche sui bombardamenti in Libia. D’altra parte Bossi lo ha detto esplicitamente, secondo lui l’Italia avrebbe dovuto fare come la Germania. Peccato che Bossi sia pur sempre un ministro del governo Berlusconi, che dall’interno del governo critica il premier. In Italia le parole contano poco, ma quella dichiarazione di Bossi è stata molto pesante, è come se avesse detto che l’Italia ha sbagliato tutto e questo è stato un segno di grande debolezza per il nostro Paese.
(Pietro Vernizzi)