Dopo più di 50 anni di più o meno velata repressione, in Egitto i Fratelli musulmani hanno creato un partito politico, il “Partito della Libertà e della Giustizia”, per partecipare alle elezioni legislative previste il prossimo settembre, mentre in Tunisia le rivolte hanno visto il ritorno di Rashed Ghannouchi, leader in esilio del partito islamista “Rinascita”. Seppure si trovi a dover fare i conti con il rinvigorito potere dell’esercito l’islam ha, dunque, l’opportunità, dopo anni di esilio forzato, di riacquistare nuovi spazi istituzionali, proponendosi come vero e proprio attore politico. Di che islam stiamo parlando e quale potrebbe essere il suo ruolo in questi Paesi?
Le due strade “obbligate” dell’islam – Forse, più per mancanza di nuove idee che per “reale convincimento”, nel tentativo di individuare il ruolo dei gruppi islamici negli Stati della Primavera araba, si tende a ricorrere agli esempi messi a disposizione dalle storia recente, dimenticando le specificità di questi Paesi e rischiando di categorizzare e semplificare realtà ben più complesse. Ecco allora che vengono riproposte due strade, diverse, ma entrambe ben conosciute: da una parte le tesi “apocalittiche” del ritorno all’islam tradizionalista e autoritario, nemico dell’occidente, sul modello della Repubblica islamica dell’Ayatollah Ruhollah Khomeini, salito al potere in Iran nel 1979 dopo la cacciata dello shah Reza Pahalavi, e dall’altro il ben più rassicurante modello turco dell’islam democratizzato. In realtà, allo stato attuale, entrambi i modelli sembrano non reggere davanti agli sconvolgimenti sociali e politici che hanno caratterizzato gli ultimi mesi dell’Egitto e della Tunisia.
L’unicità del modello iraniano – È ormai noto che le rivolte in Egitto e Tunisia sono nate dallo scontento popolare generato dalle contraddizioni e dalle sperequazioni sociali imposte dai regimi al potere. Questo sembra essere l’unico elemento comune con le rivolte iraniane degli anni Settanta, germogliate anch’esse dal malcontento della popolazione in condizioni di estrema povertà, davanti a un potere che, invece, impegnava la maggior parte delle risorse economiche del Paese nella costruzione di un potente e modernissimo esercito e nell’autocelebrazione della monarchia. Da qui in poi, però, tra le rivolte della Primavera araba e quelle del ’79 iraniano non sembrano esserci elementi comuni capaci di suggerire possibili spunti per gli scenari futuri dei due Paesi.
In primo luogo, se le cause delle rivolte sembrano essere simili, gli attori che le hanno guidate sono totalmente diversi. In Iran la rivolta, seppure le opposizioni al regime dei Pahalavi fossero molteplici e diverse (dal Tudeh comunista alle forze politiche liberali e moderate), vide nel clero sciita l’unico attore rilevante, mentre l’esercito, sostenuto dalla Savak, la polizia segreta dello shah, attuava una forte repressione in favore del regime, ponendosi in aperta antitesi alle forze rivoluzionarie. Si tratta, dunque, di una rivoluzione che nasce islamica e che trova nella Repubblica islamica di Khomeini la sua naturale evoluzione.
Nelle rivolte in Egitto e Tunisia il ruolo dei gruppi islamici è stato decisamente marginale, anch’essi colti di sorpresa dalle folle di giovani senza una chiara connotazione politica e, se vogliamo, molto più vicini ai movimenti liberali che a quelli di natura religiosa. Non sono stati i movimenti riconducibili all’islam ad offrire una spalla ai manifestanti, quanto piuttosto l’esercito che ha garantito la stabilità durante le settimane della rivoluzione.
Preso atto del fatto che il ruolo guida dell’islam è evidentemente mancato nelle rivolte recenti, si potrebbe ipotizzare una sua presa di potere in “seconda battuta”. Anche in questo caso, però, la rivoluzione khomeinista non ci viene in aiuto. Tra i Fratelli musulmani non esiste una figura carismatica in grado di convogliare in maniera rilevante il consenso popolare, mentre in Tunisia Ghannouchi, nonostante le immagini della folla che si stringeva intorno all’esule nell’aeroporto di Tunisi ci abbiano riportato alla memoria il ritorno di Khomeini a Teheran il 1° febbraio 1979, non sembra aver neppure lontanamente la forza dell’Ayatollah. La nascita della Repubblica islamica venne sostenuta in un referendum dal 98% dei consensi popolari. Difficilmente i Fratelli musulmani, o un qualunque altro partito islamico, potrebbero riscuotere un tale consenso.
Il radicamento sociale del modello turco – Seppure maggiormente credibile, anche lo scenario di tipo turco appare, per certi versi, inapplicabile alle attuali realtà islamiche della primavera araba. Iniziamo, però, dai possibili punti in comune. In Turchia l’Akp di Erdoğan e Gül è arrivato al potere attraverso elezioni libere, non ha richiesto la transizione verso uno Stato islamico e ha conservato le strutture istituzionali della laica repubblica turca fondata negli anni Venti da Kemal. Anche in Egitto i Fratelli musulmani non hanno proposto la trasformazione del Paese in uno Stato islamico, forzando i limiti della costituzione, e sembrano disposti ad accettare le regole di una dialettica parlamentare garante di una transizione morbida e costituzionalmente legittimata. La creazione di un partito con un programma politico per partecipare alle prossime elezioni ne è la conferma. Anche la Tunisia sembra orientata al modello turco, prova ne sia che, tornato in patria dal ventennale esilio a Londra dopo la caduta di Ben Ali, Ghannouchi ha pubblicamente e ripetutamente manifestato apprezzamenti per il modello turco.
Non bastano però né le similitudini né le aspirazioni ad “esportare” un modello politico. L’attuale assetto politico, sociale e istituzionale turco non è nato da un giorno all’altro. Il Paese è erede di un’esperienza imperiale ed è sempre stato indipendente, mentre la maggior parte degli Stati arabi è reduce da un lungo asservimento, prima all’Impero ottomano e quindi alle potenze coloniali, per poi conoscere esperienze politiche non democratiche. Inoltre, la Turchia è uno Stato-nazione, con una coscienza nazionale matura, che ha consapevolmente acquisito la nozione di secolarizzazione. Anche quando negli anni Ottanta salì al potere Turgut Özal, con il “Partito della madrepatria”, la rafforzata connotazione della Turchia come Stato musulmano non ha impedito di mantenere distinto l’elemento religioso dall’esercizio delle funzioni statali. I Paesi arabi, oggetto della trattazione, sono Stati senza nazioni in cui il processo di scissione tra religione e potere religioso non è stato ancora compiuto e in cui il funzionamento delle istituzioni democratiche, previste nella costituzione, è stato sempre piegato dallo stato di emergenza, dai numerosi brogli elettorali e dalle arbitrarie decisioni dei leader al potere.
Ciò ha impedito il radicamento di una struttura istituzionale solida e garante di un rapporto costruttivo tra Stato e cittadini. In conclusione, la maggior parte degli elementi qui analizzati implica processi di lunga durata difficilmente esportabili “a tavolino” in un altro contesto e per i quali non è possibile trovare scorciatoie.
La terza via – Da quanto sopra affermato, dunque, non sembrano esistere esempi applicabili al possibile ruolo dell’islam in Egitto e Tunisia, Paesi in cui, probabilmente, si farà strada un modello nuovo e non riconducibile a nessuna categoria, una sorta di “terza via dell’islam” che, se vorrà accedere al potere, dovrà tenere conto della propria storia e delle proprie peculiarità, senza però dimenticare le nuove dinamiche interne, frutto della rivolta dei giovani della Primavera araba. I gruppi e partiti musulmani dovranno misurarsi con nuovi fattori, esogeni ed endogeni, di possibile destabilizzazione. Dovranno fare i conti sia con l’esercito, il cui ruolo è stato fondamentale nelle rivolte, specie in quella egiziana, sia con i movimenti che hanno guidato le folle di giovani della Primavera araba. Ma soprattutto dovranno riuscire a superare le proprie divisioni interne, condizione essenziale per proporsi alla guida di un Paese.