Secondo un articolo di Melinda Henneberger su Time Magazine, Jon Huntsman, già ambasciatore in Cina, starebbe cercando di dimostrare di essere in grado di condurre una campagna credibile contro l’uomo per cui ha lavorato fino a poco tempo fa. Tuttavia, scrive la Henneberger, “in diversi incontri e qualche ora passata con lui nel corso di una settimana, non sono riuscita neppure a farmi dire qualcosa su piccoli segreti come se secondo lui dobbiamo rimanere o no in Afghanistan o essere presenti in Libia (“Ci sarà molto da dire su questo”), in cosa non è d’accordo con Obama (“Non voglio entrare nello specifico”) o, a tal proposito, in cosa si differenzia dagli altri Repubblicani, compreso il suo cugino alla lontana Mitt Romney, l’ex governatore del Massachusetts (“Non sarebbe corretto dare un’opinione senza una precisa analisi”).
Anche sul fatto se Huntsman faccia ancora parte della Chiesa dei Santi dell’Ultimo Giorno (Mormoni), ne so meno di quanto ne sapevo prima di chiederglielo. (“Sono una persona molto spirituale”, ha affermato,contrapponendo questo termine a religioso, “e sono orgoglioso delle mie radici mormone.” Radici? Suonerebbe come se non se ne facesse più parte. Ne è ancora membro? “É difficile da definire. Ci sono vari gradi, Discendo da una lunga serie di gestori di saloon e di predicatori, e ho preso da entrambe le parti.”)“
Ovviamente non è intenzione di Huntsman di restare a lungo così avvolto nel mistero. Henneberger riferisce che sta ammorbidendo certe sue idee precedenti, definendo il Tea Party ”una manifestazione del tutto legittima della rabbia popolare e della frustrazione in cui ci troviamo oggi. Ha anche ritirato il suo appoggio all’accordo sui limiti regionali per le emissioni di anidride carbonica, di cui lui e l’ex governatore della California, Arnold Schwarzenegger, erano un tempo forti sostenitori. “Non ha funzionato”, afferma ora, “e la nostra economia è in una situazione diversa da quella di cinque anni fa”.
Il Partito Repubblicano ha, però, davvero bisogno di una nuova faccia. Come dice John Weaver, candidato manager della sua campagna elettorale, “questo è lo schieramento Repubblicano più debole da quando Wendell Willkie vinse la candidatura al sesto ballottaggio nel 1940”.
Ma il cinquantunenne Jon Huntsman è veramente la risposta ai problemi di personale del Partito Repubblicano? Sarà capace di ottenere l’appoggio – se non proprio destarne l’entusiasmo – della base Repubblicana? In fondo è stato scelto da Obama per rappresentare gli Stati Uniti nel Paese che molti americani considerano l’impero del male.
Henneberger osserva che “è pro ambiente, un po’ troppo ‘verde’ per molti nel suo partito, e quasi nessuno sa chi è. Sebbene il cammino di Huntsman verso la candidatura sia certamente un’impresa rischiosa,” perché tanti, sia a destra che a sinistra sono così eccitati dalla prospettiva di una sua entrata nella corsa alla presidenza?
I Democratici, preoccupati che Huntsman possa essere pericoloso per Obama nelle elezioni generali del prossimo anno, continuano a esprimere apprezzamenti nei suoi confronti, sperando così di squalificarlo agli occhi dei Repubblicani. “Ma sono i conservatori particolarmente in agitazione per le attenzioni che ha ricevuto da quando è tornato dalla Cina”, scrive Henneberger. “Come governatore, l’antiabortista Huntsman, che è però in favore delle armi, ha fatto tutto ciò che i conservatori del Tea Party dicono di volere, diminuendo le tasse e aumentando i posti di lavoro.”
Il suo rapporto amichevole con Obama, tuttavia, rende i conservatori prudenti nel sostenerlo, almeno per il momento. In effetti, come mai questo governatore così popolare, con l’80% del consenso nel suo stato profondamente conservatore, a metà del suo secondo mandato ha accettato la missione in Cina, e perché è tornato per correre contro l’uomo per cui lavorava?
Huntsman dichiara che ha agito per senso del dovere verso il Paese: quando il presidente chiama, si deve rispondere. Suo padre, un uomo d’affari miliardario e filantropo, aggiunge però un’altra ragione: “Il suo sogno era di diventare ambasciatore in Cina, perché è sempre stato affascinato e attirato da quella cultura.”
Comunque, aveva in mente di correre per la presidenza, ma tra altri quattro anni: “Pensavo al 2016, ma lo scenario politico è cambiato.” Apparentemente si è creato un vuoto troppo grande per poter resistere. E aggiunge: “Se l’interesse fosse uguale a zero, noi non saremmo qui.”
Huntsman è una specie di noto burlone, dice Henneberger, ma si preoccupa anche delle persone in pena. Huntsman si inoltra anche nel difficile argomento della depressione e del suicidio, dicendo: “Mi si è spezzato il cuore più di una volta quando amici dei miei figli si sono tolti la vita.”
Quando gli si chiede dove è in disaccordo con Obama, risponde di essere un po’ riluttante, sceso da pochi giorni dall’aereo, a sparare giudizi: “Obama sta cercando di rimettere insieme i pezzi della nostra economia e di dare un senso a un mondo diventato troppo complesso e confuso.”
Dice di essere disturbato nel sentire gente che discute su chi, tra Bush e Obama, debba avere il merito maggiore nell’eliminazione di Osama bin Laden: “Il nostro Paese ha bisogno di qualche buona notizia e questo è stato un evento americano, un risultato americano, non un fatto politico.”
Cosa si può dire su un politico di questo tipo? Henneberger si chiede: “Nell’era del Tea Party, dell’asprezza delle Tv cavo e della blogosfera, c’è ancora spazio per un simile civismo sul palcoscenico nazionale? L’influenza del Tea Party può lasciare qualche spazio a un moderato come Huntsman? E il suo partito ha davvero tanta voglia di vincere da dare un possibilità a chi può attrarre gli indipendenti?”
Staremo a vedere. Significativo rimane il fatto che ultimamente la ragione dell’attenzione dei leader Repubblicani e dei media per Huntsman sia ciò che lo rende simile a Obama. É questa la scelta elettorale che gli americani vogliono per il prossimo anno?