Con il solenne e importante discorso pronunciato ieri a Londra dal presidente americano Barack Obama dinnanzi al parlamento britannico riunito a Westminster in seduta congiunta, si è compiuta una rapida sequenza di eventi politici di prima grandezza destinati ad influire a fondo sul processo di pace nel Vicino e Medio oriente, insomma sul Levante; non però necessariamente in senso positivo.
Il primo di questi eventi è stato il discorso con cui lo stesso presidente Obama ha annunciato la scelta di Washington di scendere in campo a fianco della “primavera araba”, ossia dei movimenti giovanili da cui viene in diversi paesi arabi quella spinta verso la democratizzazione e l’ammodernamento che ha già condotto in Tunisia e in Egitto alla caduta dei presidenti-dittatori Ben Ali e Hosni Mubarak. Il secondo è stato il discorso con cui, parlando a Washington al Congresso degli Stati Uniti, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha apertamente respinto il piano di Obama per una soluzione dell’annoso conflitto israelo-palestinese. Il terzo è appunto il discorso di ieri a Westminster con cui il presidente americano, attingendo alla storia e citando Churchill, ha riaffermato l’importanza della “relazione speciale” (special relationship) che lega gli Stati Uniti alla Gran Bretagna ribadendone con forza la validità anche nel tempo presente. Consiglio a chi legge l’inglese di andarselo a vedere, ad esempio sul sito BBC news che lodevolmente lo pubblica in versione integrale. In nome della “relazione speciale” Obama invita Londra ad affiancare Washington nel suo proposito di costruire una nuova pax mediterranea nel contesto che la “primavera araba” sembra annunciare.
La questione in gioco è ovviamente un’altra, ma l’orizzonte politico-culturale è ancora quello dei tempi di Churchill e di Roosevelt: se, forti della nostra comune tradizione democratica e dei nostri comuni valori civili noi Stati Uniti, noi Gran Bretagna sapremo operare in stretta intesa, sarà possibile costruire una nuova pax mediterranea al di là del tramonto delle dittature arabe (sin qui da noi stessi sostenute, avrebbe dovuto aggiungere, ma ovviamente non l’ha fatto) e al di là di ciò che vuole o non vuole Israele. La questione è tutta tra Washington e Londra; nel discorso non c’è il minimo cenno all’Unione europea, di cui pure il Regno Unito è uno dei membri principali.
Preso a se stante il ragionamento non fa una grinza. Il problema è che appunto il quadro d’insieme non è più quello rigorosamente nordatlantico che si affermò con la vittoria degli Alleati nella Seconda guerra mondiale. Pur continuando ad essere di gran lunga la potenza con la maggior forza militare, come tutte le più recenti crisi hanno dimostrato (da quella irachena a quella afghana) gli Stati Uniti non sono più in grado di effettuare degli interventi risolutivi. Al contrario ogni volta complicano le crisi in cui intervengono, restandovi sempre più impantanati.
L’esperienza sta dimostrando che le crisi si possono affrontare con buone probabilità di successo soltanto nella misura in cui si usano strumenti più complessi e più articolati della sola opzione militare. E questo implica la mobilitazione di energie, di risorse non solo economiche ma anche umane, e di esperienze che vanno ben oltre l’asse Washington-Londra. Gli Usa e la Gran Bretagna ci vogliono, sarebbe non solo inopportuno ma anche ingenuo negarlo, ma da soli non bastano. E si deve anche fare in fretta a cambiare registro, innanzitutto nel caso della Libia; prima che, col sopraggiungere dell’inverno in Europa, la domanda ben poco flessibile di gas naturale per il riscaldamento renda sempre meno sopportabile l’incancrenirsi senza sbocco del conflitto in corso.
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