L’accordo che domani le due fazioni palestinesi Al-Fatah, capeggiata da Abu Mazen, e Hamas, che controlla la Striscia di Gaza dal 2007, firmeranno ufficialmente al Cairo è sortito sulla scena internazionale generando non pochi dissapori.
Mentre sul fronte interno i due gruppi hanno annunciato che “l’intesa è stata raggiunta su tutti fronti” e che sono decisi a indire, entro un anno, le elezioni per la formazione di un nuovo governo, la fermezza di Israele e la freddezza degli Stati Uniti non si sono fatte attendere. Il ministro degli esteri Avigdor Lieberman ha immediatamente dichiarato che “Israele non negozierà con il futuro governo”. Washington, più cauta, ha dettato le precondizioni per ogni potenziale futuro dialogo con Hamas: il riconoscimento dello Stato di Israele e la rinuncia alla violenza.
Questo accordo, che potrebbe mettere fine a una lunga lotta inter-palestinese, che tra il 2006 e il 2007 era sfociata in una vera e propria guerra civile, prende forma, in realtà, al cospetto di fattori storici e regionali che giocano del tutto a svantaggio della tradizionale intransigenza israelo-americana. La riconciliazione tra Al-Fatah e Hamas – è bene ricordarlo – è stata accelerata dalle manifestazioni svolte nella Striscia di Gaza nell’ultimo mese e ispirate dall’ondata rivoluzionaria araba.
Le negoziazioni segrete sono state condotte sotto l’egida della mediazione egiziana, coronate per giunta dalla decisione del Cairo di riaprire il valico di Rafah, tra la Striscia di Gaza e l’Egitto, la cui chiusura era stata determinata nel 2007 dalle pressioni israeliane sull’allora presidente egiziano Hosni Mubarak. Infine, in questi giorni, i vertici politici di Hamas hanno “traslocato” dalla Siria al Qatar, smarcandosi da quell’asse iraniano-siriano che ha fatto finora del movimento palestinese e dell’Hezbollah libanese le sue pedine infiammabili al confine con lo Stato ebraico, offrendo al contempo a Israele e Stati Uniti un’ottima motivazione per chiudere ogni porta di dialogo.
Il Qatar è invece una monarchia sunnita, alleata degli Usa, che ha avallato la repressione in Bahrein in quanto membro del Ccg (Consiglio di cooperazione del golfo) e che ha appena inviato la sua aviazione militare in Libia a fianco della coalizione internazionale contro Gheddafi.
L’accordo tra Al-Fatah e Hamas sembra, dunque, quantomeno nascere sotto auspici differenti rispetto agli innumerevoli tentativi di riconciliazione falliti per eccesso di divergenza tra le parti (come l’ultimo nel marzo 2009) o per incompatibilità con le condizioni esterne. Quello che in realtà sembra essersi sostanzialmente modificato è il contesto regionale in cui attori come Hamas, ordinariamente abituati ad agire da free-riders, possono vedere più funzionale alla propria sopravvivenza l’abbandono di istanze estremiste a favore di scelte più moderate.
La Primavera araba, non incitata dall’Occidente, ma certamente ispirata ai valori “repubblicani” occidentali, ha fatto emergere in tutta la regione una forte spinta all’autodeterminazione dei popoli. E non è così strano che la popolazione palestinese, la cui aspirazione alla nazione è molto più spiccata rispetto a quella di molte altre società arabe inscritte in un’entità statale, abbia colto la congiuntura storica come un’occasione per rilanciare – dal basso – l’annoso progetto di costituzione dello Stato.
E non è neppure così strano che Hamas, sdoganato o smarcatosi volontariamente – come si voglia – dai patroni storici (Iran e Siria) abbia compreso che per poter essere attore e beneficiario di questo – seppur difficile – processo, deve mettersi nelle condizioni di poter sedere ai tavoli negoziali. Tanto più che, secondo i sondaggi, il 62% della popolazione della Striscia di Gaza si dice non soddisfatto delle condizioni di vita imposte dal movimento islamico e che, se concorresse adesso alle elezioni, Hamas prenderebbe un mero 26%.
La chiave sta in realtà in due aggettivi che compaiono nell’ultimo rapporto Centcom realizzato dal Comando centrale Usa: in una sezione dal titolo Managing Hezbollah and Hamas, i due gruppi vengono definiti “terroristici”, ma anche “pragmatici e opportunisti”. Questa è una caratteristica tipica di tutti i movimenti nati dalla vocazione al militantismo islamico e che hanno poi accettato la metamorfosi (del tutto pragmatica) funzionale a poter battere la scena politica: si tratta soprattutto di Hamas, Hezbollah e dei Fratelli Musulmani.
In relazione a un clima regionale e internazionale, più ostile o più accomodante nei loro confronti, la loro condotta è oscillata da posizioni più radicali a più flessibili. E non si deve cadere nell’errore di pensare che l’istituzionalizzazione di questi gruppi sia questione puramente cosmetica. Quanto più, invece, verranno integrati nel dialogo, quanto più evidenti saranno i vantaggi relativi di cui potranno beneficiare, tanto più facilmente essi accetteranno di attenersi alle regole del gioco.
La riconciliazione tra Al-Fatah e Hamas pone adesso Israele di fronte a un grande dilemma. Lo Stato ebraico deve, infatti, confrontarsi con la realtà sempre più concreta di uno Stato palestinese. Persino la Francia la scorsa settimana si è aggiunta ai 110 membri dell’Onu che riconoscono l’Autorità nazionale palestinese come Stato. Che le motivazioni di Sarkozy siano più legate all’affermazione dell’indipendenza della politica estera francese rispetto alla linea di tutte le istituzioni internazionali in cui essa è inserita, poco importa.
C’è di fatto che la Francia non è un paese arabo e non è neppure la Russia o il Brasile, per i quali, seppur per scopi politici diversi, il riconoscimento della Palestina appare più scontato. La Francia è un Paese europeo che nel sistema internazionale pesa dalla parte dell’Occidente e che ha sempre intrattenuto ottimi rapporti con Tel Aviv. Questo potrebbe far preconizzare che il clima internazionale si stia muovendo a favore della creazione dello Stato palestinese e, di conseguenza, le scelte dello Stato ebraico saranno adesso determinanti per disegnare il futuro assetto regionale.
Israele potrà scegliere di essere più prudente e più accondiscendente, tanto più che l’alleato storico egiziano è divenuto molto meno malleabile, le difficoltà del regime siriano alla frontiera impauriscono il governo di Netanyau e nel processo di ridefinizione regionale gli Usa sembrano sempre più impacciati e meno in grado di trovare uno spazio d’influenza. Ma nella riapertura del dialogo, perché non si riviva l’ennesima puntata di una storia che conosciamo a memoria, Israele dovrebbe in qualche modo superare la sua consuetudinaria abitudine di prendere tutto senza dar nulla in cambio.
Perché un’eventuale riapertura del negoziato riporterebbe sul tavolo le questioni avite, sempre le stesse: il ritorno dei rifugiati, la questione di Gerusalemme Est e il ritiro entro i confini della guerra del 1967. Su questi dossier Israele ha sempre fatto la bimba capricciosa, anche perché le circostanze glielo permettevano. Ma le cose adesso stanno diversamente e Israele potrebbe considerare che fare delle rinunce, in un clima regionale suscettibile al cambiamento, condurrebbe più facilmente a una normalizzazione dei rapporti con i vicini arabi. Se, invece, Tel Aviv dovesse restare sulla sua linea tradizionale, non è affatto improbabile che il conflitto arabo-israeliano si riaccenda.
E con molte più incertezze: gli Stati Uniti, infatti, sono invischiati già su troppi fronti per essere in perfetta forma di fronte all’ennesimo focolaio mediorientale in cui dovrebbero per giunta giocare il ruolo più controproducente alla loro immagine, quello dei soliti imperialisti; in Europa i disagi finanziari spingono sempre più in alto nei sondaggi i gruppi politici che chiedono un abbandono totale dai fronti internazionali e nuovi impegni militari risulterebbero invisi all’opinione pubblica. Ma soprattutto un atteggiamento di apertura da parte di Israele potrebbe placare l’irruenza di gruppi come Hamas e Hezbollah.
Al contrario, la riproposizione della strategia muro contro muro non farebbe altro che radicalizzare un environment regionale con cui Israele dovrà comunque continuare a fare i conti.