«Quello che emerge dal G8 di Deauville è un Occidente senza una chiara strategia politica per affrontare i problemi del Medio Oriente. Al di là delle dichiarazioni di principio, non si comprende come in Paesi quali Libia, Siria e Yemen si possa giungere a una via d’uscita, e anche in Egitto e Tunisia la situazione è difficile. Ma al di là delle dichiarazioni di intenti, le superpotenze mondiali hanno preferito non parlarne». E’ l’analisi di Luigi Geninazzi, inviato di Avvenire, dopo che Nicolas Sarkozy e Barack Obama hanno annunciato un pacchetto di aiuti da 40 miliardi di dollari per sostenere le democrazie nei Paesi arabi che si sono ribellati ai regimi dittatoriali.



Geninazzi, come valuta il «piano Marshall» per la primavera araba varato dal G8?

Si tratta di un fondo di circa 40 miliardi di dollari, un po’ più dei 35 miliardi di cui si parlava alla vigilia del G8. L’Egitto ha ottenuto anche la cancellazione di un miliardo di dollari di debito da parte degli Stati Uniti. E’ una cifra consistente e un segnale importante. Anche perché questi Paesi stanno affrontando una grande depressione economica. In Tunisia ed Egitto era previsto un aumento del Pil del 4-5%, e invece sarà intorno all’1%. Non dimentichiamoci che sono Paesi con problemi strutturali enormi e con una disoccupazione giovanile difficile da combattere.



Ritiene quindi che il G8 si concluda con un successo?

No, perché il G8 purtroppo ha lasciato in ombra gli aspetti più squisitamente politici delle rivolte nei Paesi arabi, soprattutto per quanto riguarda i segni di criticità che stanno emergendo sulle prospettive della Primavera araba. L’elenco è lungo, e include gli stessi Paesi che hanno rovesciato i rais. In Tunisia non si è ancora stabilito quando si andrà a votare. C’è una grande incertezza, e soprattutto la prospettiva che vinca il partito islamista Ennahda. Qualcuno ha ipotizzato uno scenario simile all’Algeria degli anni ’90, quando le elezioni democratiche furono vinte dal Fis e per non avere gli integralisti islamici al potere i militari attuarono un colpo di Stato, cui seguì per lunghi anni una guerra civile strisciante. In Egitto la situazione è ancora molto incerta, basti pensare ai legami economici stretti di recente con l’Arabia Saudita, che ha varato un prestito da 4 miliardi di dollari, quindi il quadruplo degli aiuti promessi da Washington. Se il governo più conservatore e reazionario del mondo arabo si allea con la cosiddetta nuova democrazia dell’Egitto, significa che sta avvenendo qualcosa di poco chiaro.



Questo però non sta fermando le rivolte nei Paesi arabi…

Nello Yemen ormai siamo alla guerra civile con decine di morti tutti i giorni, mentre in Siria le vittime hanno superato il migliaio. Per non parlare della Libia, dove da tempo si dice che Gheddafi ha le ore contate, ma a due mesi dall’inizio dei bombardamenti nessuno sa in modo chiaro come andrà a finire. Rispetto a tutte queste questioni il G8 ha fatto le solite dichiarazioni di intenti, senza formulare una strategia politica per tutta l’area del Maghreb e dei Paesi arabi. La visione di Obama secondo cui la democrazia non deve andare a discapito della stabilità è chiara, ma occorre anche mettere in atto un piano per realizzare questa visione.

Secondo lei quali scelte dovrebbe attuare l’Occidente?

Per la Libia ormai ha già scelto, ma non si vede ancora quale sarà il dopo Gheddafi. Tutti sperano che il rais se ne vada, ma non si capisce ancora come. Se cioè con un esilio volontario, reso difficile da un probabile impeachment della Corte internazionale dell’Aja, o con un’eliminazione fisica. E anche se nessuno lo dice, è questa la speranza dell’Occidente. Proprio per questo, l’unica strategia in corso è quella di continuare e di intensificare i bombardamenti: una scelta che non ritengo particolarmente illuminata. I problemi sono complessi, e proprio per questo i politici dovrebbero preparare un’agenda politica chiara. Non averlo fatto al G8 di Deauville è stata un’occasione persa.

Finché Gheddafi non cade è difficile però immaginare il futuro della Libia…

Al G8 però ci si poteva quantomeno aspettare una riflessione su che cosa abbiano fruttato questi due mesi di bombardamenti, che si stanno avvicinando ai 78 giorni della guerra del Kosovo. Tutti adesso corrono a riconoscere il comitato provvisorio di Bengasi, ma ciò che manca è una visione chiara dello scenario. L’ultima partita di questo poker complicatissimo con Gheddafi non la riesce a immaginare ancora nessuno.

E in Siria quale agenda poteva predisporre il G8?

Con la Siria ci si è mossi con grande ritardo e ancora adesso non si sa che cosa fare. Ci si è limitati alle sanzioni che hanno però un’efficacia molto scarsa, perché il Paese è già isolato da tempo. La situazione che si è creata in Siria del resto è assolutamente assurda e inconcepibile, perché non sappiamo nulla di quanto sta avvenendo nel Paese. Abbiamo immagini e informazioni su Twitter e Youtube, ma in Siria non si trova un solo giornalista straniero in grado di testimoniare qual è la vera natura delle rivolte. Il G8 avrebbe quindi dovuto quantomeno chiedere che i giornalisti potessero entrare nel Paese. Siccome le autorità siriane dichiarano che le proteste sono guidate da piccoli gruppi di estremisti islamici, è giusto che lascino che i media internazionali verificassero la veridicità di questa affermazione. Ma nessuno Stato occidentale ha chiesto che ciò avvenisse.

Quali altri temi secondo lei avrebbero dovuto essere affrontati al G8?

Tra gli altri la questione israeliano-palestinese. Obama ha chiesto a Israele di ritornare ai confini del 1967, ma non è questo il vero problema. Quello che occorre è negoziare concretamente sugli «Swap», cioè sugli scambi territoriali tra Israele e Palestina per fare nascere un nuovo Stato. C’è un chiaro impasse che non si riesce a superare, e Obama ha posto solo dei paletti, ma questo evidentemente non basta.

Gli aiuti del G8 corrono il rischio di incoraggiare le rivolte anche nei Paesi arabi rimasti finora tranquilli?

Non credo. In Marocco e Giordania ci sono già stati dei movimenti di protesta, ma le monarchie sono state in grado di attutire i colpi, limitandosi a cambiare i rispettivi governi. L’Arabia Saudita è un Paese assolutamente chiuso e conservatore, dove le proteste sono state stroncate sul nascere. E quanto sta avvenendo ultimamente in Siria e in Yemen non è certo un incoraggiamento a ribellarsi.

(Pietro Vernizzi)