Osama Bin Laden ha cessato di vivere da mesi. I suoi piani hanno di fatto avuto fine lo scorso gennaio, quando milioni di musulmani arabi sono scesi in strada con manifestazioni pacifiche – l’esatto contrario della dottrina del jihad armato da lui sostenuta – per reclamare la libertà, la democrazia e uno stato civile, i pilastri della civiltà umana contemporanea da lui combattuti.
La frustrazione, l’umiliazione, la rabbia e il desiderio di vendetta che inducevano le piazze arabe a simpatizzare con il principe del terrore saudita, si sono trasformate, con le rivoluzioni arabe, in energia costruttiva e speranza in un futuro migliore. Bin Laden e il suo pensiero hanno perso ogni base di sussistenza, perché il nemico più grande del terrorismo e della violenza è la libertà.
Non c’è amore senza libertà e non c’è dialogo senza amore. Il dialogo non è una trattativa tra due parti distinte, né un’alternativa civile alla violenza. È l’operazione di scoperta di sé attraverso l’incontro con l’altro, l’apertura al mondo e all’assoluto (all’imperscrutabile). Ma un dialogo di questo tipo può esistere solo se fondato sull’amore e sostenuto dall’amicizia, questo è quanto ho sperimentato al Meeting di Rimini, al Meeting del Cairo, in piazza Tahrir e nell’Egitto post-rivoluzionario.
Il gruppo del Meeting del Cairo si è costituito dopo avere ospitato, lo scorso ottobre, il Meeting di Rimini, influenzato da quell’esperienza di dialogo e amicizia tra i popoli. Questo piccolo gruppo di età non superiore ai sei mesi, formato da centinaia di giovani, intellettuali, docenti universitari e giudici che hanno vissuto l’esperienza dell’amore basato sull’incontro, si è trasformato in una forza positiva capace di influenzare la realtà egiziana. Dopo l’attentato di Capodanno alla chiesa di Alessandria, abbiamo risposto alla violenza sfoderando l’arma della bellezza e dell’arte, con un concerto di musica islamo-cristiana, diventato una vera e propria icona, che è stato ritrasmesso più volte su tutti i canali della televisione ufficiale pre-rivoluzionaria. Poi, allo scoppio della rivoluzione, il gruppo del Meeting del Cairo è stato in prima linea, partecipando ad ogni avvenimento e continuando a contribuire alla costruzione del nuovo Egitto anche dopo il successo della rivolta. Ma forse, l’iniziativa più grande del gruppo sarà il congresso del 7 maggio prossimo, con la partecipazione di 3500 personalità dell’area liberale che rappresenteranno tutte le città, i villaggi e i quartieri dell’Egitto, dal Cairo ad Alessandria.
Scopo del congresso è la formazione di un unico fronte liberale, che si coordini con i partiti e le forze politiche di tale area, in vista delle prossime elezioni parlamentari e presidenziali, per assicurare la fondazione di uno stato civile egiziano.
Tutte le iniziative di questo gruppo – anzi, l’esistenza stessa di questo gruppo – non sono altro che il risultato dell’incontro con il Meeting di Rimini, durante il quale abbiamo potuto liberarci di stereotipi e preconcetti, riscoprendo noi stessi, ritrovando la fede nella nostra capacità di agire e di cambiare le cose, prima di dare libero corso ai nostri sogni. Attraverso questo dialogo non abbiamo imparato soltanto il rispetto per l’altro, ma anche il rispetto per noi stessi. Questo incontro non ci ha spinti a credere soltanto nei diritti degli altri, ma anche nei nostri. Il dialogo autentico non è altro che l’esperienza condivisa dei valori della verità, del bene e della bellezza, che non possiamo vivere senza la presenza degli altri.
Dico questo, perché leggo ogni giorno, sui giornali italiani, come ci sia chi rimpianga la dittatura di Mubarak, ritenendo che per gli egiziani fosse migliore della libertà. Negli anni passati, quando affermavo che il regime di Mubarak era il vero nemico dei cristiani egiziani, in conferenze o in interviste sui giornali italiani, ero deriso da esperti che non conoscevano altro che stereotipi e preconcetti. Oggi, tuttavia, non posso che pensare che siano in malafede, specie dopo che gli eventi hanno rivelato come il regime non solo opprimesse i cristiani, ma fosse anche coinvolto in attentati contro le chiese durante le festività. L’esagerazione della forza e della diffusione delle correnti religiose estremiste, così come l’appello a restare semplicemente in attesa di ciò che porterà questa rivoluzione, contrastano con l’opinione autorevole dei leader religiosi cristiani che vivono nella realtà egiziana.
Estremismo e conflitto religioso non sono altro che una conseguenza di quasi mezzo secolo di dittatura, non il risultato della rivoluzione civile degli egiziani che ha ispirato il mondo intero. La rivoluzione, infatti, ha sottratto all’estremismo ogni ragione di essere. Tutte le volte che l’Egitto farà un passo avanti in direzione della libertà, l’estremismo religioso arretrerà. Possiamo vederne i segnali ogni giorno, con il retrocedere quotidiano dei gruppi estremisti dalle proprie idee. Chi prima considerava la democrazia un’infedeltà verso Dio, oggi si adopera per fondare un partito politico con il quale partecipare alle elezioni, e chi prima pretendeva che i cristiani pagassero la jizya [imposta a carico dei non musulmani che fanno parte della comunità islamica, N.d.T.], oggi accetta la loro candidatura alla presidenza della repubblica. Il cambiamento avverrà senz’altro, perché l’estremismo e la violenza religiosa sopravvivono benissimo sotto il peso dell’oppressione securitaria, ma non resistono alle pressioni della libertà. Tuttavia, bisogna rendersi conto che gli effetti di cinquant’anni di dittatura non si guariscono in cinquanta giorni di rivoluzione.
È triste e avvilente, per noi egiziani, constatare che c’è chi crede che non siamo fatti per la libertà.
(Traduzione dall’arabo di Elisa Ferrero)