C’è già chi lo definisce l’“Annozero della Palestina”. L’accordo siglato tra Fatah e Hamas in questi giorni potrebbe segnare realmente una svolta nel conflitto arabo-israeliano. Dopo quattro anni di scontri e diciotto mesi di trattative, Abu Mazen ha fatto pace con i signori della Striscia, mentre ora ha tutte le carte in regola per chiedere all’Onu la legittimazione del suo “Stato”. Hamas, dopo anni di malagestio in Gaza e limitrofi, ha fatto buon viso a cattivo gioco. E sotto l’occhio vigile di Omar Suleiman ha celebrato al Cairo le nozze con la leadership palestinese.
Sia Abbas che Meshaal sanno che che il matrimonio non è avvenuto per amore, ma per convenienza. Il punto che li unisce è la lotta a Israele. Per il resto, tra gli analisti c’è chi scommette su quanto durerà il sodalizio. Prendiamo per esempio la morte di Bin Laden. L’autorità palestinese ha accolto la notizia con entusiasmo, con la convinzione che il terrorista più ricercato degli ultimi anni avrebbe danneggiato anche l’immagine stessa dell’islam se fosse rimasto in vita ancora per molto. A Gaza, impero degli ultraradicali, cortei e processioni funebri si sono alternati nelle strade piene di gente furiosa contro l’occidente. Di questi tempi però, con la Siria sull’orlo del baratro e un Medio oriente colpito da un’onda di rivoluzioni senza precedenti, si fa di ogni necessità virtù. Abu Mazen si è tolto un piccolo sassolino dalla scarpa per correre più velocemente all’assemblea generale dell’Onu in settembre e chiedere a tutto il mondo il riconoscimento ufficiale dello Stato palestinese, secondo i confini tracciati dalla guerra dei sei giorni, nel 1967. Hamas ha ottenuto la garanzia di sopravvivere ancora un po’.
La reazione dei vicini non si è fatta attendere. “Israele non negozierà con la versione palestinese di Al-Qaeda”. Il primo ministro israeliano, nel suo stile, non usa mezzi termini. Mentre Hillary Clinton, disposta ad aiutare i palestinesi, ha già detto che non tratterà con Hamas fino a quando non riconoscerà a Israele il diritto di esistere. Lo ha ribadito ancora una volta Netanyahu, ricevuto a Parigi nei giorni scorsi: “Credo che il principio sia chiaro: qualunque negoziato di pace con Israele non può prescindere dal riconoscimento dello Stato di Israele come Stato ebraico”. Il primo ministro solleva una delle questioni cruciali del conflitto: per i palestinesi significherebbe infatti rinunciare al diritto di ritorno dei rifugiati cacciati dalle loro terre al momento della creazione d’Israele nel ’48. Con Hamas ora nella squadra, ai tavoli di pace quest’ipotesi non verrebbe nemmeno presa in considerazione.
Cosa cambierà nei processi di pace è difficile a dirsi. Che Israele non tratterà con i terroristi è una conferma di cui non avevamo bisogno. I piccoli progressi raggiunti nei mesi scorsi potrebbero venire cancellati nel giro di pochi giorni. Nel difendere – ognuno – i propri interessi e il proprio orgoglio, entrambi guardano con miopia ai destini dei due popoli, da anni inevitabilmente intrecciati. In fondo in fondo, lo sanno tutti e due. Ma preferiscono vestire i panni di Penelope, che tesseva la tela di giorno e la disfaceva di notte. In attesa del suo Ulisse che avrebbe messo a posto le cose. La fragile tela costruita in questi mesi è stata distrutta ancora una volta, lacerata nell’eterna lotta dove Israele non vincerà mai e i palestinesi perderanno sempre.
La reazione dei vicini non si è fatta attendere. “Israele non negozierà con la versione palestinese di Al-Qaeda”. Il primo ministro israeliano, nel suo stile, non usa mezzi termini. Mentre Hillary Clinton, disposta ad aiutare i palestinesi, ha già detto che non tratterà con Hamas fino a quando non riconoscerà a Israele il diritto di esistere. Lo ha ribadito ancora una volta Netanyahu, ricevuto a Parigi nei giorni scorsi: “Credo che il principio sia chiaro: qualunque negoziato di pace con Israele non può prescindere dal riconoscimento dello Stato di Israele come Stato ebraico”. Il primo ministro solleva una delle questioni cruciali del conflitto: per i palestinesi significherebbe infatti rinunciare al diritto di ritorno dei rifugiati cacciati dalle loro terre al momento della creazione d’Israele nel ’48. Con Hamas ora nella squadra, ai tavoli di pace quest’ipotesi non verrebbe nemmeno presa in considerazione.
Cosa cambierà nei processi di pace è difficile a dirsi. Che Israele non tratterà con i terroristi è una conferma di cui non avevamo bisogno. I piccoli progressi raggiunti nei mesi scorsi potrebbero venire cancellati nel giro di pochi giorni. Nel difendere – ognuno – i propri interessi e il proprio orgoglio, entrambi guardano con miopia ai destini dei due popoli, da anni inevitabilmente intrecciati. In fondo in fondo, lo sanno tutti e due. Ma preferiscono vestire i panni di Penelope, che tesseva la tela di giorno e la disfaceva di notte. In attesa del suo Ulisse che avrebbe messo a posto le cose. La fragile tela costruita in questi mesi è stata distrutta ancora una volta, lacerata nell’eterna lotta dove Israele non vincerà mai e i palestinesi perderanno sempre.