A un passo dalle elezioni che domenica scorsa hanno riconfermato il suo partito con poco più del 50% dei voti, sarebbe stato troppo rischioso per il premier turco Recep Tayyp Erdogan continuare a tenere una linea tiepida nei confronti del governo di Bashar al Assad. E infatti il leader dell’AKP non ha corso il rischio di scontare una punizione elettorale per essersi mostrato connivente nei confronti del sanguinario regime alleato, che negli ultimi 3 mesi ha ammazzato circa 1.300 persone e compiuto oltre 10mila arresti. Dopo la prima fase della rivoluzione siriana in cui la Turchia ha intravisto un’occasione preziosa per rivestire l’ambito ruolo di garante dell’equilibrio regionale – invitando Bashar al Assad ad implementare davvero le riforme annunciate e offrendo il suo supporto nel gestire la transizione – nelle ultime settimane il premier turco ha invece deciso di disarcionare senza mezzi termini il regime siriano dal cavallo di un’alleanza divenuta ormai scomoda.



Offrendo sede sul proprio territorio, nella città di Antalya, al summit dell’opposizione siriana per decidere le linee politiche di un post-Assad, accogliendo oltre 5mila rifugiati giunti dalla Siria nel sud della Turchia e dichiarando che Ankara “non chiuderà mai le porte a chi scappa da una repressione brutale e inumana”, Erdogan ha voluto eliminare ogni ombra di ambiguità dalla posizione del suo governo in materia di diritti umani, eguaglianza e libertà democratica, ovvero i punti focali del suo programma elettorale nella corsa appena conclusa verso le urne; ma nel far questo, la Turchia si è trovata giocoforza a doversi riposizionare nei confronti del mondo arabo, regione tanto ambita in termini egemonici quanto complessa per quel che attiene alla possibilità di tessere alleanze stabili e di lungo periodo.



Quasi per ironia della sorte Ankara ne ha avuto conferma proprio dal suo alleato privilegiato tra i paesi arabi, il regime siriano, le cui vicende congiunturali stanno per di più mettendo in crisi la dottrina cardine della politica estera turca “zero problemi con i vicini”, elaborata dal ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu: essendo costretta a prendere le distanze proprio dal suo principale partner arabo, la Turchia si rende sempre più conto di quanto il tentativo di offrirsi come guarantor esterno di una transizione democratica per i vicini sia molto più complesso di quel che potesse sembrare all’inizio.



Il bilancio delle rivoluzioni, in barba agli entusiasmi che pullulavano nella stampa internazionale all’inizio del 2011, ci offre un quadro non poco intricato: sia per l’evidente difficoltà di sistemi politici immaturi e dalla longeva tradizione autoritaria di fare i conti da un giorno all’altro con la democrazia (e con quale forma di democrazia!) sia per le pericolose ricadute che il crollo di un regime potrebbe riversare su tutto l’assetto regionale. Ed è proprio quest’ultimo aspetto che permea l’enigma della rivoluzione siriana e che ha portato la Turchia – ma a dire il vero la comunità internazionale intera – a procedere con i piedi di piombo nell’assumere una posizione nei confronti di Bashar al Assad. Ankara sa bene che se il regime siriano dovesse cadere, il post-Assad non sarebbe privo di una lotta per il potere tra le diverse componenti della società siriana, troppo eterogenea per poter facilmente trovare una rapida formula di convivenza armonica. Se questo scenario dovesse poi prendere i contorni di una guerra civile, il rischio di veder destabilizzati gli 800 km di frontiera che separano la Siria dalla Turchia sarebbe estremamente elevato. Ma se Assad dovesse sopravvivere, Ankara sa altrettanto bene quanto complesse potrebbero essere le relazioni tra i due paesi.

In primo luogo Damasco non è mai stati un partner troppo fidato: la multi-direzionalità – talvolta il doppiogiochismo – del regime siriano ha spesso irritato la Turchia, soprattutto per il supporto che la Siria ha offerto ai curdi del PKK e i capricci di Damasco sulla contesa delle acque dell’Eufrate. Inoltre la Siria non ha mai smesso di proporsi come fulcro della “arabità”, l’unità etnica degli arabi, da difendere contro le ingerenze dei vicini mediorientali non-arabi, sfidando, dunque, apertamente il disegno egemonico della Turchia (come dell’Iran) sulla regione, pur essendone principale alleato. Ma soprattutto l’erosione ormai irreversibile di ogni fonte di legittimità del potere di Assad, esclude la perpetuazione delle attuali relazioni tra il governo di Ankara e quello di Damasco. Un fatto, questo, ancor più pertinente adesso che la Turchia di Erdogan si propone di andare, almeno negli slogan propagandistici, sempre di più nella direzione della democrazia e del liberalismo.

Anche perché influenzata dalla coincidenza con la corsa alle elezioni turche del 12 giugno – in cui Erdogan mirava al bagno di consensi (2/3 dell’elettorato) necessario a metter mano alla Costituzione – la rivoluzione siriana è stata un vero e proprio banco di prova per il primo ministro turco. Il capo dell’AKP ha, infatti, scommesso sull’identità liberale della Turchia, sottolineando l’evoluzione del suo progetto politico e sancendo, nel panorama regionale, la profonda differenza tra il suo paese e l’Iran (che ha invece prontamente offerto al regime di Bashar al Assad tutto il suo raffinatissimo know-how in materia di repressione delle rivolte interne). La Turchia di certo non rinuncia alle sue ambizioni egemoniche sul mondo arabo, tanto più nel momento storico in cui la domanda di democrazia proveniente da quest’area offre alla potenza anatolica l’occasione di proporre un modello politico unico nella conciliazione di democrazia e religione islamica; ma l’evoluzione delle intifade – dalle complicate situazioni libica, siriana e yemenita agli arrancanti tentativi della Tunisia e dell’Egitto di pianificare ex post una transizione non prefigurata ex ante la caduta del potere contestato – rende ormai chiaro al governo di Ankara che qualsiasi tipo di ingerenza negli affari arabi comporterà l’assunzione di numerosi rischi; mentre la precarietà dell’equilibrio regionale rappresenta sempre più una spina nel fianco della Turchia che sul piano economico, politico e culturale corre ad una velocità diversa dal resto dei suoi vicini.