Dopo 5 mesi di vuoto di potere, mentre il fare e il disfare sembravano essere diventati ormai i passatempi preferiti nel palazzo del Parlamento di Beirut e l’assuefazione alla dinamica del negoziato perenne ormai il trait d’union di tutte le componenti del sistema politico e sociale, martedì scorso, senza preamboli, il nuovo governo libanese è stato formato, annunciato ed entrato in carica la mattina dopo. Per capire come mai, dopo tanti cambi di luna e d’umore, l’accordo necessario a mettere in piedi un nuovo gabinetto è stato raggiunto in Libano, bisogna guardare, ancora una volta – come si fa ormai da oltre 30 anni – a quello che sta succedendo in Siria.



Che il regime di Damasco non abbia mai voluto abbandonare le sue mire egemoniche sul piccolo paese confinante è cosa ben nota. Certo, la rivoluzione dei Cedri del 2005, seguita all’assassinio dell’ex premier libanese Rafic Hariri (di cui la Siria fu ritenuta subito responsabile) sembrava aver messo fine all’ingerenza politica e militare di Damasco negli affari interni del Libano. La vittoria elettorale di Saad Hariri, figlio di Rafic, nel giugno 2009, aveva poi rafforzato quel senso di intolleranza civica nei confronti della presenza straniera e rinvigorito la speranza di poter finalmente affermare la sovranità territoriale e politica del paese dei Cedri.



Ma che fossero soltanto illusioni si è anche fatto presto a capirlo. L’impasse del tribunale dell’Onu, istituito nel 2005 per individuare gli assassini di Hariri, ha, infatti, continuato ad essere gestita più a Damasco e Ryad che a Beirut. Nel gennaio 2011, poi, nel momento culminante della crisi dei rapporti tra il Tribunale e il governo libanese, mentre nel resto della regione cominciavano a sbocciare i fiori della primavera araba, in Libano il governo di Hariri – a capo della coalizione parlamentare del 14 marzo e dell’allora governo di unità nazionale (che coinvolgeva cioè forze della maggioranza e dell’opposizione) – è caduto per la dimissione di 11 ministri del blocco dell’8 marzo, capeggiato da Hezbollah, e per il cambio di bandiera del leader del Partito Socialista, il druzo Walid Jumblatt, che ha così voltato le spalle ad Hariri.



L’Hezbollah libanese aveva allora la piena maggioranza nelle sue mani, avrebbe potuto designare un premier appartenente al gruppo parlamentare dell’8 marzo, che potesse ben rappresentare l’identità ideologica della coalizione e ribaltare il quadro politico a proprio vantaggio. E invece la nuova maggioranza ha voluto nominare alla carica di premier Nagib Mikati, uomo d’affari sunnita, proveniente da Tripoli, scollato dalle istanze ideologiche dell’8 marzo, non ostile alla famiglia Hariri ma anche amico personale del presidente siriano Bashar al Assad. Mikati è stato lanciato sulla scena come l’uomo della mediazione, garante dell’equilibrio del sistema politico e figura funzionale alla costituzione di un nuovo governo di unità nazionale. Ben presto ci si è però resi conto di quanto il businessman tripolino fosse troppo debole per aggregar tutte le parti politiche. Dalla sua designazione in poi il balletto delle riunioni senza esito ha marcato di ridicolo gli ultimi 5 mesi della politica libanese: ogni settimana il governo sembrava pronto a formarsi e l’indomani qualcuno cambiava idea, fino a quando tra l’altro le forze del 14 marzo hanno annunciato ufficialmente che non avrebbero partecipato al nuovo gabinetto. 

Il sospetto che dietro la stagnazione libanese ci fosse la mancanza di volontà damascena di vedere il Libano tornare ad una seppur apparente stabilità, con il coinvolgimento di tutte le forze politiche, è venuto a molti. Che i capi della coalizione dell’8 marzo – e non solo gli Hezbollah – concertino ogni decisione con il regime siriano è realtà conosciuta in questo paese. È, d’altra parte, sorprendente come il blocco della frontiera siriana nei confronti del mondo intero, al fine di arginare la fuga di notizie dal paese, non abbia mai fatto perdere intensità al traffico di Mercedes a vetri scuri lungo la valle della Bekka che collega Beirut a Damasco. E non è un caso che la formazione del nuovo governo libanese sia giunta al ritorno da un viaggio di Walid Jumblatt con rotta Damasco-Parigi-Damasco-Beirut. La formazione del recente governo libanese sembra confermare ancora una volta che il burattinaio del teatro politico del paese dei Cedri faccia di nome Assad.

Il gabinetto entrato in carica mercoledì scorso è una formazione fragilissima, composto esclusivamente da esponenti dell’8 marzo – cosa di per sé pericolosissima in un paese che si fonda sull’equilibrio di tutte le componenti del sistema politico – che difficilmente sarà in grado di occuparsi dei problemi economici e sociali, come oggi il nuovo premier ha annunciato, ma che sicuramente in questo momento serve alla Siria per proteggersi da una eventuale rimonta dei sunniti libanesi.

Damasco teme, infatti, che questi ultimi potrebbero allearsi con i sunniti siriani, principale componente del movimento rivoluzionario che da oltre 3 mesi chiede la fine del potere alawita di Bashar al Assad. E così, mentre resta indifferente di fronte alle pressioni internazionali che lo invitano a fermare la repressione interna e rilancia la sua campagna mediatica, mostrando migliaia di manifestanti pro-Assad che sfilano per le vie di Damasco, il regime siriano segna un successo diplomatico non indifferente, un messaggio fortissimo per la comunità internazionale e la Lega Araba, facendo chiaramente comprendere quanto, in barba alla legittimità negata dal suo popolo, la Siria sia ancora in grado di modellare l’assetto regionale.