Diversamente dall’11 settembre 2001, questa volta nessuno ha fatto crollare, con un attentato, i simboli dell’occidente, causando migliaia di morti. A crollare questa volta sono stati dei regimi dittatoriali, spesso sanguinari e violenti, e non per mano di gruppi islamici, ma per merito di giovani che hanno riempito le piazze chiedendo quei diritti che si sono finora visti negare.



Tra le macerie ora si fa strada la possibilità che gruppi islamici possano accedere al potere. Nulla dunque accomuna i due eventi, eppure i toni con cui si parla di islam sono spesso ugualmente apocalittici. Se nel primo caso questo era ampiamente giustificato, nel secondo appare forse eccessivo.

Perché tanta paura dell’islam? La risposta a questa domanda è complessa e va ricercata nella rappresentazione dell’islam diffusa in occidente. È necessario, dunque, partire da qui, dagli stereotipi e dalle categorizzazioni “nostrane” dell’islam, per fare un po’ di chiarezza.



In primo luogo vi è l’oramai noto concetto dello scontro di civiltà e di un islam in opposizione all’occidente e alla modernità. A questo, però, specie negli ultimi mesi, si affianca un nuovo modello interpretativo, quello di una sorta di “islam all’occidentale”, che, sempre nel tentativo di inglobare l’islam in una qualche categoria, finisce, anche in questo caso, per snaturarne l’essenza.

L’islam contro l’occidente. In molti Stati della sponda sud del Mediterraneo la forza dell’islamismo ha avuto le sue radici in un forte disagio sociale e in una grave crisi di legittimità delle strutture del potere.



A cominciare già dalla fine degli anni settanta, la politica di sviluppo degli Stati nazionali, realizzata da alcuni regimi mediorientali, comincia a dimostrare i propri fallimenti. Le disuguaglianze in termini economici e sociali diventano sempre più evidenti e la forbice tra ricchi e poveri aumenta, facendo emergere la classe degli esclusi, soprattutto i giovani delle periferie urbane, espressione della crescita demografica e dell’incapacità di un’integrazione nel tessuto economico e sociale. Tale  situazione si acutizza negli anni ottanta, quando scoppiano le prime rivolte di piazza. I governi rispondono, in generale, con una parziale apertura economica ma mantenendo una sostanziale egemonia politica.

Il revival islamico che ha caratterizzato la storia politica di molti Stati musulmani negli ultimi trent’anni è la risposta in cui si è palesato e incanalato il malcontento della popolazione. In questo contesto l’islam è stato legittimato pubblicamente come ideologia, ponendosi come alternativa ai fallimenti delle forme di modernizzazione, capitalismo e socialismo e i leader islamisti sono emersi come le principali forze di opposizione in Algeria, Tunisia, Egitto e altri Paesi dell’area. Agli occhi di molti osservatori occidentali questo fenomeno, specie dopo l’11 settembre, ha assunto i connotati di una delle più gravi minacce alla stabilità dei rapporti con i Paesi del Mediterraneo, lasciando campo aperto alle rappresentazioni di un islam violento che si pone in opposizione all’occidente e ai simboli della modernità.

Se da un lato è condivisibile la preoccupazione per il riemergere del radicalismo islamico, dall’altro è innegabile che in occidente viga una visione troppo spesso “essenzialista” dell’islam, considerato come una realtà monolitica, che non ha mai subito nessun tipo di evoluzione interna o di modificazione nel corso della sua storia. Invece l’islam è una realtà estremamente plurale che, per di più, oggi si trova a fare i conti con una nuova classe sociale, quella di quei giovani che navigano in rete, parlano inglese e protestano nelle piazze per avere più garanzie per il futuro, da cui difficilmente può prescindere se vuole far presa sulla maggioranza della popolazione e non solo sulle minoranze più tradizionaliste.

L’islam dell’occidente. In questi ultimi mesi i dibattiti occidentali si stanno arricchendo di una nuova interpretazione dell’islam. Per esorcizzare la paura dell’onda islamica la si fa diventare quanto più simile ai nostri modelli così da poterla comunque controllare, capire, gestire. Se la modernizzazione del Medio oriente resta per buona parte dell’occidente l’unica interpretazione accettabile, il problema sta nel fatto che questa non può più essere gestita attraverso i vecchi leader oramai decaduti, ma solo attraverso le nuove forze che acquisiranno il potere. Se queste forze saranno rappresentate dai gruppi islamici allora sarà necessario modernizzare l’islam. In altre parole, cambia l’attore di riferimento ma non cambia l’errore prospettico dell’occidente. Ecco allora che l’islam deve abbracciare la modernità, anzi, la nostra modernità, l’unica possibile e l’unica accettabile.

Il passaggio di consegne non appare poi così difficile, visto che abbiamo scoperto, con una certa sorpresa e, a volte, con  un certo disappunto, che le masse giovanili arabe utilizzano i social network per chiedere la libertà. Questo è sufficiente per sostenere che la società araba è pronta per il salto verso un modus vivendi occidentale, anzi lo sta reclamando a gran voce?

Forse in tutto questo c’è un errore di prospettiva che non tiene conto di tanti anni di storia e di tradizioni consolidate. Se da un lato è vero che all’interno di molti movimenti dell’islam politico si è venuta creando negli ultimi anni una nuova generazione di giovani che hanno le stesse esigenze dei loro coetanei, dall’altra ciò non implica che da questo momento in poi tutta la tradizione islamica possa essere resettata e dalle ceneri delle rivolte possa rinascere una sorta di “islam all’occidentale”.

Le semplificazioni sono sicuramente rassicuranti perché apparentemente ci consentono di comprendere ciò che è “diverso da noi”, ma sono alquanto pericolose. Anche in questo caso l’errore dell’occidente sta nel voler vedere a tutti i costi i complessi percorsi politici del Medio oriente con le “lenti occidentali”. Ma così non è, i giovani nelle piazze hanno inneggiato a “pane e libertà”, chiedendo “lavoro”, ma raramente negli striscioni si è letta la parola “democrazia” o “modernità”. Le equazioni libertà = democrazia o modernità = libertà  restano, dunque, concetti piuttosto occidentali.

Non resta allora che spogliarci delle nostre rassicuranti rappresentazioni e tentare di pensare a quale potrebbe essere l’islam degli arabi in un contesto di grandi fermenti in cui la ricerca della libertà genererà probabilmente un cambiamento; cambiamento, però, che non può essere letto secondo gli schemi della consolidata tradizione democratica occidentale.

La terza via dell’islam. Da quanto appena affermato emergono due grandi semplificazioni sull’islam. La prima, quella più consolidata nell’immaginario collettivo, di un islam violento, distruttivo, una minaccia per la stabilità politica ma anche sociale dell’occidente; la seconda, più soft e rassicurante, ma non meno errata, di un islam aprioristicamente inglobabile negli schemi della modernità accidentalmente intesa.

Ciò sembra rendere impossibile l’esistenza di una terza via dell’islam e cioè che le nazioni islamiche seguano la loro storia, le loro dinamiche interne sulle quali l’occidente svolge un’influenza abbastanza marginale e non necessariamente funge da modello. Il “vento della storia” soffia nel mondo islamico in direzioni e con movimenti estranei alla nostra tradizione. Quanto avvenuto in Egitto, in Tunisia e, per certi versi, anche in Libia risponde a fenomeni interni alle società arabe che hanno poco a che spartire con la storia occidentale e che i modelli occidentali non sono in grado di spiegare e comprendere appieno.

È probabile che, se l’auspicata attuazione di sistemi democratici nei Paesi della primavera araba si concretizzerà nell’accesso delle masse alla politica, tale accesso agevolerà partiti e movimenti che si riferiscono all’islam. Non è un caso che  in Egitto quello dei Fratelli Musulmani sia uno dei pochi partiti organizzati e non è un caso che siano stati proprio loro a far votare i dieci punti del referendum dello scorso marzo, a far varare la nuova costituzione e a programmare le nuove elezioni legislative per il mese di settembre 2011.

Qualunque cosa accadrà nei Paesi delle rivolte arabe, dunque, non avverrà secondo i nostri consolidati standard. Se in Medio oriente dalle ceneri della primavera araba germoglierà un vero processo di sviluppo, lo farà, nella migliore delle ipotesi, modificando i nostri modelli, e non certo seguendone uno da noi “preconfezionato”.