Oggi, in un tribunale cambogiano, sotto il patrocinio dell’Onu, si è aperto il processo storico contro i 4 leader sopravvissuti del regime dei Khmer Rossi. Sul loro capo pendono alcune tra le più gravi accuse al mondo: genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. I 4 si sarebbero macchiati dei delitti che vengono loro attribuiti alle fine degli anni ’70, durante la dittatura maoista. Il rinvio a giudizio è arrivato dopo un iter lunghissimo e complicato, tanto che in molti hanno definito il caso come uno dei più complessi dai tempi del processo ai nazisti di Norimberga. Un processo che alimenta le aspettative delle famiglie delle vittime e dei superstiti al massacro dei Khmer rossi, che tra il ’75 e il 79 si resero responsabili della morte e della tortura di due milioni di persone. Le operazioni, tuttavia, vanno – come appare evidente dall’arco temporale intercorso tra la caduta del regime e il rinvio a giudizio – a rilento. L’attuale governo non è particolarmente entusiasta e Hun Sen, primo ministro, ha detto chiaramente che non intende tollerare altre ingerenze da parte delle Nazioni unite. I quattro, in ogni caso, sono: Nuon Chea, 84 anni, il “Fratello numero due”, ex capo della sicurezza statale; Khieu Samphan, 79 anni, ex presidente; Ieng Sary, 85 anni, “Fratello numero tre”, ex ministro degli esteri; sua moglie Ieng Thirith, 79 anni, ex ministro degli affari sociali. Pol Pot, il “Fratello numero uno”, morì nel 1998, mentre Kaing Guek Eav, detto Duch, è stato condannato, nel 2010 a 35 anni di carcere. Era il responsabili della prigione S-21 di Tuol Sleng (oggi museo) simbolo della ferocia del regime. Si trattava di un‘ex scuola adibita a prigione e campo di concentramento. Si calcola che in essa vi furono detenute e trovarono la morte almeno 20mila persone, ma si tratta di stime approssimative. Ciò è che certo, è che chi veniva imprigionato, in base ad accuse generiche di spionaggio, legate alla paranoia dei Khmer di sobillazione, era sottoposto alla sevizie più atroci: torture con la frusta, con i cavi elettrici, con attrezzi metallici roventi e con il metodo di tenere i prigionieri appesi a lungo.
Si pensa che solo 7 persone siano sopravvissute alla prigione; che, in ogni caso, era solamente una delle tante della fittissima rete di lager del paese. Si trattata di uno strumento ordinario che il regime, deposto nel ’79 dall’invasione vietnamita, utilizzava come strumento di realizzazione dell’ideologia marxista. Oltre a fare largo impiego del carcere e della tortura, i Khmer collettivizzarono ogni cosa, inviarono gli intellettuali a lavorare nei campi, abolirono il denaro e svuotarono le città.