Dopo il grande entusiasmo per l’impresa dei giovani tunisini ed egiziani che in pochi giorni sono riusciti a porre fine a decenni di dittature, sembra calato il sipario sulla primavera araba. Ciò che restano sono i “bollettini di guerra” sui morti in Siria, su cui però oltre all’aggiornamento costante del numero delle vittime poco sembra animare politici e mass media, e le notizie sulle “apparizioni” di Gheddafi impegnato, tra una partita di scacchi e l’altra, a diffondere i “soliti” proclami contro i traditori occidentali.



Cosa resta ora che i giovani in Egitto e Tunisia  hanno lasciato le piazze, mentre in altri paesi la lotta per la libertà dalle dittature sembra arenarsi e tingersi sempre più di sangue? In altre parole  che fine ha fatto la primavera araba?

Mai come ora che l’interesse per le piazze arabe sembra essere stato eclissato dai problemi “nostrani”, è importante tentare di fare il punto della situazione e capire cosa sta accadendo all’interno di quei paesi che fino a pochi mesi fa riempivano le prime pagine dei quotidiani.



Tra i vari punti interrogativi, una cosa sembra certa: le rivolte nate, in linea generale, dagli stessi sentimenti e risentimenti popolari, sembrano aver preso una strada diversa nei vari paesi che le hanno viste esplodere.

L’Egitto, che pur non essendo stato il motore della primavera araba è senza dubbio il paese su cui si sono concentrate le speranze e gli entusiasmi di molti osservatori occidentali, sembra essere tornato alla normalità. Il problema ora è capire se questa normalità debba essere considerata un elemento positivo, preludio di un futuro migliore, o semplicemente un ritorno al passato, magari con nuove sembianze. Alcuni eventi sembrerebbero far propendere per la seconda opzione. Il referendum dello scorso marzo sulla nuova costituzione, infatti, non ha cambiato di molto la Carta. Seppure le riforme approvate dal 77% circa dei votanti prevedano la limitazione del numero di mandati presidenziali e l’allentamento delle restrizioni per il rafforzamento del controllo della magistratura sulle elezioni, non ci sono sostanziali modifiche ai poteri del presidente, che per 31 anni hanno garantito, de facto, l’onnipotenza di Mubarak. Sarà compito del nuovo parlamento, che uscirà vincitore dalle elezioni di settembre, rafforzare le limitazioni alle prerogative presidenziali. A ciò si aggiunga che l’esercito, spalla fondamentale per la rivolta, sembra aver assunto posizioni più intransigenti, proibendo, ad esempio, alcune manifestazioni pubbliche, mentre i Fratelli musulmani divengono sempre più assertivi sulle loro posizioni, forti anche del risultato referendario che  ha tenuto il vita l’articolo 2 della costituzione che sancisce la supremazia della legge islamica.



Con questi presupposti  il paese si presenta alle elezioni di settembre, elezioni che, al momento, vedono come possibili candidati alla vittoria gli unici partiti realmente organizzati, primi tra tutti il National Democratic Party che raccoglie i “resti” de partito guidato da Mubarak e il Partito di Libertà e Giustizia dei Fratelli Musulmani. Non è un caso che sono stati proprio loro a volere il referendum e soprattutto a spingere per imminenti elezioni e non è neppure un caso se ciò è andato a detrimento dei nuovi gruppi politici nati sull’onda delle rivolte. Per i giovani che hanno fatto la rivoluzione, infatti, sei mesi sono troppo pochi per organizzarsi, basti pensare che, ancora oggi, non riescono a darsi un leader. Neppure il Fronte Nazionale per il Cambiamento di ElBaradei, nonostante la caratura del suo leader, ex direttore generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica e statista di caratura internazionale, sembra riuscire a superare le diverse istanze interne. I nuovi gruppi politici, vera novità scaturita dalla rivoluzione e speranza per il futuro del paese, dunque, in linea di massima, brancolano nel buio.

Altrettanto caotica è la situazione in Tunisia. Anche qui, come nel vicino Egitto, il fatto che la rivoluzione sia stata spontanea e non pianificata da nessuna leadership, se in un primo momento è stato considerato un fattore positivo, ora appare quasi una maledizione. Da un lato, la solidarietà tra i molti settori della società, e tra organizzazioni come quelle dei sindacati, è stata un decisivo vantaggio per la riuscita delle rivolte, dall’ altro, l’assenza di una guida crea difficoltà nel porre le basi di una riforma politica e nello stabilire la legittimità di una qualche rappresentanza. Il risultato è una enorme frammentazione che si rispecchia nell’impressionante numero di partiti che si presenteranno alle prossime elezioni, più di 60, molti dei quali nati con il solo scopo di salire sul carro del vincitore. Tra la miriade di formazioni politiche, più o meno improvvisate, spicca una certezza: il partito islamico Ennahdha, fondato da Rached Ghannouchi e vietato dal 1991, è stato riconosciuto il primo marzo 2011 e si presenta come una delle realtà più discusse, ma al contempo più forti e accreditate, per il prossimo futuro.

Se la situazione in Egitto e in Tunisia è quantomeno incerta, in molti altri paesi investiti dall’onda della primavera araba, è decisamente drammatica, a iniziare dalla Siria dove i morti e feriti si contano a migliaia e più di 12mila profughi avrebbero lasciato il paese. All’urlo delle piazze siriane fa eco l’assordante silenzio dell’occidente. Fa pensare il fatto che non siano stati né gli Stati Uniti né l’Europa ma proprio quella Turchia, fino a poche settimane fa “amica” della Siria, a dare i primi concreti segnali contro il regime di Assad, esortandolo non solo a rinunciare all’uso della forza contro i dimostranti, cosa che, peraltro, hanno fatto anche le potenze occidentali, ma mantenendo le proprie frontiere aperte a coloro che decidono di scappare dalle violenze, accogliendo, fino ad ora, secondo fonti ufficiali, più di 10mila siriani, ma il numero sembra destinato a salire.

Sta ora agli Stati Uniti, all’Europa, che in questi giorni ha, comunque, deciso di rafforzare le sanzioni già previste contro il regime, o, magari, all’Onu, decidere se aumentare il pressing su Damasco o continuare a rivolgere ad Assad “esortazioni” evidentemente inascoltate.

Eccoci infine alla Libia, dove dopo più di tre mesi di bombardamenti, nonostante qualche ottimistica previsione del Ministro degli Esteri europeo “di turno” si assiste senza se e senza ma a una situazione di stallo che non può certo ancora considerarsi un fallimento ma che del fallimento ha già gettato i presupposti. Con sempre maggiore frequenza le forze Nato vengono accusate di bombardare edifici civili, mentre i rapporti con gli stessi ribelli, a cui si è voluto dare sostegno, sembrano registrare le prime difficoltà. Intanto il ministro del Petrolio e delle finanze del Consiglio nazionale di transizione ha bussato alle casse degli alleati ricordando che le risorse sono finite, accusando l’occidente di non mantenere le promesse fatte ai ribelli e chiedendo soldi agitando l’infallibile carta del petrolio.

Esistono, dunque, molte ombre e molti interrogativi sulla primavera araba e sembrano spegnersi le speranze per una profonda trasformazione del Medio Oriente. Il grido dei giovani della rivoluzione sembra cadere nel vuoto, frenato da numerosi e diversi ostacoli, e sarebbe un peccato se l’occidente, in silenzio, continuasse a guardare.