«La decisione della Corte penale internazionale di spiccare un mandato di cattura contro Gheddafi non può certo aiutare a risolvere la crisi libica, perché rischia di irrigidire la posizione delle due opposte fazioni». Lo afferma il sottosegretario alla Difesa, Giuseppe Cossiga, intervistato da Ilsussidiario.net sui principali fronti caldi che vedono impegnati i militari italiani, dalla Libia all’Afghanistan. Per Cossiga, «nell’attuale fase il fatto che emerge è che la guerra non è la soluzione definitiva, e occorre quindi trovare una via d’uscita diplomatica. Ma per farlo, bisogna evitare che una delle due fazioni si trovi in una situazione in cui può soltanto perdere». Mentre sull’attentato di martedì all’Hotel Inter-Continental di Kabul, il sottosegretario ritiene che sia «una conseguenza del modo con cui Obama ha mediatizzato il disimpegno Usa per fini di politica interna».



Onorevole Cossiga, la missione della Nato in Libia è sempre più in una situazione di stallo. Qual è secondo lei la via d’uscita?

L’intervento della Nato ha avuto una sua efficacia per impedire a Gheddafi di massacrare la popolazione civile e avere il sopravvento sugli insorti. In questo modo si è creato un «livellamento» tra il potenziale delle truppe fedeli al rais e quello dei ribelli, ma non si è riusciti a permettere a questi ultimi di vincere. E questo riporta al centro il fatto che la guerra non è mai la soluzione definitiva. Quella che occorre cercare ora è una soluzione di tipo diplomatico, che richiede per forza di cose di parlarsi, e quando si aprono dei colloqui come minimo devono esserci due parti. Se non troveremo il modo per portare al tavolo entrambe le parti, pur con l’obiettivo di far prevalere quella che è nel giusto, non riusciremo ad andare da nessuna parte. Questo quindi è uno dei grandi impegni per l’Italia, che per prima è riuscita a portare l’intervento militare sotto il comando unificato della Nato. Ed è sempre l’Italia che adesso si sta spendendo per risolvere un conflitto che altrimenti rischia di andare avanti per molto tempo senza ottenere particolari risultati.



Il mandato di arresto della Corte penale internazionale nei confronti di Gheddafi può favorire o meno questo tentativo di dialogo?

Guardi, la risposta che le darò è a titolo personale e non a nome di tutto il governo. Ma ritengo che il mandato di arresto di Gheddafi con il conflitto ancora in corso e con le due fazioni ancora lontane, pur chiarendo qual è la posizione internazionale, non può aiutare a risolvere la crisi libica perché irrigidisce le posizioni dei due fronti. Nella prospettiva di confrontarsi a un tavolo, difficilmente si potrà dire a Gheddafi: «Devi accettare la nostra decisione perché sei in una situazione in cui puoi solo perdere». Ben diverso per esempio è quello che si tentò di fare all’epoca della seconda guerra del Golfo nei confronti di Saddam Hussein, cui si offrì una via d’uscita che prevedeva l’esilio. Una prospettiva ben diversa da un processo e il carcere a vita deciso da corte internazionale. La strada della diplomazia è più complessa di quella della giustizia, ma porta più lontano.



Le due parti che si stanno confrontando in Libia celano dietro di sé anche degli appoggi internazionali?

E’ evidente che sono in campo due partiti libici, ma quanto è avvenuto (e lo dico sempre senza impegno per il governo) è anche il frutto del perseguimento di interessi, anche legittimi, da parte di attori non libici. La Libia non è l’Egitto, e la rivolta contro Gheddafi non è un puro e semplice effetto di una primavera civile del mondo arabo. Di sicuro in Libia c’è anche qualche cosa di più.

Lei ha citato l’Egitto. Ritiene che dietro agli scontri di ieri al Cairo vi sia un «tentativo di destabilizzazione», e chi sta mirando a perseguirla?

Questa fase di scarsa stabilità dell’Egitto, in cui è significativa la presenza storica di un certo fondamentalismo arabo ante litteram, espone il Paese a un certo rischio. E non mi sto riferendo ad Al Qaeda, bensì ai Fratelli musulmani. Qui il pericolo rimane, ed è stato acuito dalla reazione forse troppo entusiastica di una parte dell’Occidente. In molti infatti hanno fornito una lettura degli avvenimenti secondo uno schema di ragionamento molto occidentale, che è di difficile applicazione in Egitto. Noi tendiamo a vedere tutto come se fossimo a casa nostra, tralasciando il fatto che l’Egitto è un Paese dalla grande storia e cultura, ma le cui tradizioni politiche sono ben diverse dalle nostre.

Che cosa può fare l’Italia per favorire la transizione verso la democrazia del Medio Oriente?

Quello che l’Italia deve fare e che sta facendo in tutte le sedi, è fornire una lettura degli eventi sulla base della nostra conoscenza approfondita della realtà araba, che è superiore a quella di molti nostri partner. Dovremmo avere quindi l’autorevolezza di far percepire che il cammino verso la democrazia di Egitto e Tunisia è diverso da quello avvenuto in Europa, e che gli obiettivi e la tempistica del loro raggiungimento non devono essere valutati con il nostro metro. Il Nord Africa è un altro mondo rispetto a noi, questa è la verità.

L’attentato di martedì a Kabul è anche la conseguenza dell’imminente disimpegno delle forze Nato?

Evidentemente sì. I talebani sanno bene l’effetto che produce sull’opinione pubblica occidentale un attentato come immediata reazione a una decisione di disimpegno, che il presidente Obama ha enfatizzato in modo eccessivo. Dobbiamo renderci conto che alle nostre azioni corrispondono reazioni immediate da parte dei nostri nemici.

Quindi la strada del disimpegno rischia di portare a un incremento degli attentati?

Non la strada del disimpegno, ma la volontà di mediatizzarlo per fini di politica interna senza valutarne bene gli effetti. Tutti sappiamo che siamo in Afghanistan per trasferire per quanto possibile la capacità di controllo del Paese al governo di Kabul. Ma dobbiamo fare attenzione a evitare che la necessità di ottenere il consenso degli elettori occidentali, metta a rischio il grande lavoro e il lungo sforzo che è stato compiuto in Afghanistan. Meglio quindi evitare di parlare di date come ha fatto Obama, a differenza per esempio dell’Italia.

Ma il nuovo fronte libico non rischia di indebolire gli sforzi occidentali in Afghanistan?

Sicuramente lo sforzo in Afghanistan è quello prioritario. Ma dobbiamo tenere presente che quando parliamo della Libia, soprattutto per l’Italia stiamo parlando del giardino di casa nostra. L’economia dello sforzo però è necessaria per ottenere il risultato, ed è molto curioso che un Paese potente come gli Stati Uniti sia stato il primo a ridurre fortemente la sua presenza in Libia.

In quali Paesi le missioni internazionali dell’Italia andrebbero ridotte?

Innanzitutto quella in Bosnia, dove è stata pianificata un’importante riduzione della nostra presenza. In Libano inoltre l’Italia ha reso possibile Unifil 2 portandola a successo: oggi però non è vergogna ma sano realismo iniziare a ripensare il nostro ruolo in questa missione.

(Pietro Vernizzi)

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