Non è una novità che lo Yemen sia un paese ad altissimo rischio stabilità. Da anni chi studia il Paese e osserva le sue dinamiche politiche interne è attentissimo all’evoluzione degli eventi yemeniti e non ha potuto fare a meno di inserire tale realtà tra le aree più a rischio non solo del Medio oriente, ma probabilmente di tutto il mondo. Non a caso lo Yemen, tra tutti i paesi coinvolti (o, in alcuni casi, travolti) dalla cosiddetta “primavera araba”, era l’unico ad essere seriamente considerato fortemente instabile e l’ondata di rivolte dell’area non ha fatto altro che gettare benzina sul fuoco.
Sono molti i fattori che hanno determinato, con il tempo, tale situazione, tra cui si possono annoverare almeno due fronti di opposizione al regime, uno di matrice sciita zaydita nel Nord (legato al movimento di al-Houthi) e uno nel Sud del paese, di matrice socialista e separatista, entrambi aizzati da condizioni socio-economiche e di accesso alle risorse di potere discriminatorie. A ciò si aggiunga la presenza sempre più rilevante di cellule legate al terrorismo di stampo qaedista, come testimoniato dalla nascita proprio in Yemen di al-Qaeda nella Penisola Arabica, attualmente una delle più attive su tutto il fronte mediorientale. Tale situazione era ed è, del resto, determinata dalla scarsa capacità delle istituzioni centrali di esercitare il proprio controllo su tutte le aree del Paese, le cui dinamiche politiche si basano ancora per gran parte su legami di tipo tribale, mascherati di volta in volta in da conflitti etnici, politici o religiosi.
Se questa era una situazione ormai nota e ad altissimo rischio, le rivolte arabe hanno agito su un substrato di malcontento e instabilità già avanzato, causando ulteriori disordini. L’elemento di novità, negli ultimissimi giorni, risulta essere la momentanea partenza del presidente Ali Abdullah Saleh dal Paese, direzione Arabia Saudita. Come è da leggere tale avvenimento e cosa potrebbe dunque accadere alla luce di questo fatto?
Saleh è andato nella vicina Arabia Saudita, ufficialmente, per curarsi dalla ferite riportate durante l’attacco al suo complesso presidenziale da parte della tribù degli Hashid guidata da Sheikh Sadeq al-Ahmar. Il fatto che Saleh abbia lasciato il suo paese per Riyadh potrebbe, a ben guardare, essere letto invece come un definitivo allontanamento dallo Yemen. Proviamo a vedere perché. Non sarebbe la prima volta che la famiglia reale saudita darebbe ospitalità e protezione ad un leader straniero (il tunisino Ben Ali è solo l’ultimo in ordine cronologico), inserendosi di fatto nelle controversie di un paese terzo. L’Arabia Saudita è il più stretto alleato regionale del regime di Saleh e, in tempi passati, aveva anche agito con le proprie forze armate fin dentro i confini yemeniti per sedare le rivolte sciite da un lato e, dall’altro, per combattere la proliferazione jihadista, che avrebbe potuto usare lo Yemen quale retrovia per colpire la stessa Arabia Saudita.
Motivazioni strategiche che, quindi, nascondono preoccupazioni più dirette per la monarchia, dal momento che un’instabilità e un aumento della violenza ai propri confini sono percepite come una diretta minaccia ai sauditi stessi. Del resto, già in Bahrein, altro paese del Golfo confinante e in cui la rivolta araba è stata guidata dalla comunità sciita del Paese, al-Saud ha inviato proprie truppe a reprimere i manifestanti, sotto l’egida del GCC (Gulf Cooperation Council). L’interesse dell’Arabia Saudita sembrerebbe dunque quello di mantenere una situazione, se non stabile, almeno non compromessa per sempre nello Yemen.
In quest’ottica, il ritorno di Saleh nel Paese, proprio ora che in sua assenza la piazza esulta e le lotte di potere (non solo metaforiche) imperversano, potrebbe significare far precipitare irrimediabilmente la situazione e rendere lo Yemen definitivamente un non-Stato. La temporanea fuga di Saleh, infatti, ha se non altro aperto alcune nuove possibilità, che vanno dalla graduale democratizzazione dello Yemen grazie al coinvolgimento di parte della società civile che ha partecipato alle rivolte, alla presa del potere da parte di una nuova élite militare (fedele o meno a Saleh stesso), che possa assicurare un periodo di stabilità interna (“stabilità” da considerare nell’accezione yemenita del termine) in attesa di nuove evoluzioni.
Il primo scenario sembra essere al momento meno probabile, in quanto implicherebbe un maggiore sforzo da parte della comunità internazionale e degli Stati Uniti, i quali sembrano invece aver delegato proprio a Riyadh la gestione della crisi yemenita, in virtù dell’interesse più immediato di quest’ultima. Ora, se si pensa che in casi analoghi nel passato, tra cui quello dell’ex presidente tunisino Ben Ali, l’Arabia Saudita ha vincolato la protezione del leader in esilio alla sua uscita di scena dal mondo politico, si potrebbe dedurre che Saleh sia attualmente nel paese vicino non solo per curarsi, ma per restarvi (anche alcuni membri della sua famiglia lo hanno accompagnato, ma non il figlio Ahmed, da alcuni additato come possibile successore, sebbene adesso ciò appaia difficile). La stessa Arabia Saudita potrebbe cercare un compromesso con i leader tribali del paese e portare lo Yemen ad essere relativamente “sotto controllo” e avrebbe interesse a non far tornare il presidente in patria.
Se ciò fosse confermato, l’Arabia Saudita starebbe agendo per imporre quella pax saudita che consiste nel mantenere strutture di potere ad essa vicine nei paesi del Golfo, intervenendo come elemento stabilizzatore degli equilibri dell’area e, soprattutto, evitando di creare nuovi vuoti di potere all’interno dei quali potrebbero inserirsi due forze. La prima, come già detto, è quella della nebulosa di al-Qaeda, la seconda è una forza meno visibile, ma che potrebbe avere grandi vantaggi dalla perdita di influenza saudita nell’area: l’Iran. Proprio il regime di Ahmadinejad, infatti, risulta essere uno degli attori che maggiormente potrebbe trarre vantaggio dalla situazione di incertezza nello Yemen e in Bahrein. Tale considerazione non è mai da sottovalutare quando si prendono in considerazione le mosse di Riyadh sullo scacchiere regionale mediorientale.
Il futuro dello Yemen potrebbe dunque decidersi, in buona parte, proprio a Riyadh. Se così fosse, anche per lo Yemen si tratterebbe di una finta rivoluzione, in cui la cacciata di un leader sarebbe seguita dall’arrivo di un altro regime caro all’ala protettrice saudita. Se da un lato un simile scenario potrebbe portare a una stabilizzazione temporanea del Paese, ciò non cancellerebbe però le ragioni profonde delle proteste. Lo Yemen è il paese più povero e frammentato di tutto il Medio Oriente, con un altissimo rischio di terrorismo e il più alto tasso di piccole armi liberamente in circolazione. In un simile contesto, investimenti di tipo politico, sociale ed economico di lungo periodo, da parte di attori come Washington e l’Ue, sarebbero più incisivi nel lungo termine, rispetto ad una soluzione come quella prospettata e promossa dall’Arabia Saudita (sebbene con il beneplacito dell’Occidente). Quest’ultima potrebbe calmare momentaneamente la situazione, ma non potrebbe proporre, per motivi che riguardano il proprio stesso interesse strategico, una soluzione dalle lunghe vedute.